L’ARTE DEL DUBBIO O IL DUBBIO DELL’ARTE

 

Se fossi … diciamo una signora, ma non una signora qualsiasi, una di quelle fastidiosamente color platino, con il maglioncino a collo alto e due orecchini di costosa bigiotteria grossi come limoni, la giacca a vento trapuntata col bordo di pelliccia, una di quelle signore insomma che va a teatro con l’amica e gli occhiali da presbite cercando di rendere noto al mondo che lei è “ una che va a teatro”, se fossi una persona così dicevo, lo spettacolo mi sarebbe piaciuto molto.
Purtroppo sono solo un tizio qualunque che ama il teatro, così come il buon cibo e né in un caso né nell’altro mi sognerei di mandar giù una qualsiasi brodaglia, per quanto la si spacci per alta cucina.
L’Arte del Dubbio è prima di tutto un libro di Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore. Anzi, più che un libro, è una sorta di manuale sulle tecniche da adottare durante un interrogatorio e su come il dubbio possa essere usato efficacemente  per demolire un testimone. Un testo interessante.
Poi è stato portato in scena dal regista Sergio Fantoni, con l’interpretazione di Ottavia Piccolo e Vittorio Viviani. Quello che mi stupisce è che sia anche resa nota la figura di quel tizio che ne ha fatto la trasposizione teatrale (o adattamento, o versione teatrale), Stefano Massini. Mi stupisce, non me ne
voglia il caro signor Massini, perché gli attori non fanno altro che descrivere come un libro stampato ogni azione, sguardo, gesto, per poi ripeterlo dopo ogni descrizione: “si alzò di scatto” e si alza di scatto, “fece l’occhiolino” ed ammicca,  “Guardò a destra” e guarda a destra, quasi che fossimo tutti tanto scemi da aver bisogno di associare a ciascuna parola il  gesto/azione corrispondente.

Forse si è sbagliato il caro Stefano, stava in realtà scrivendo una guida di Teatro for Dummies, quei manualetti gialli e neri scritti apposta per i tonti, poi si sa com’è pressante il lavoro, ti chiamano in continuazione e hai le scadenze da rispettare e voilà, si fa presto ad inviare il file sbagliato. O forse non è colpa sua ma colpa del regista, che più che interessarsi a ciò che potevano combinare gli attori col testo si è divertito a creare degli effettini carini, ma dal magro scopo, come le sagome di cartone dei vari personaggi. Ma io vorrei dire una cosa: signor Fantoni, se fa entrare in scena qualcosa di potenzialmente carino e divertente mi aspetto anche che poi gli attori ci giochino, se ne servano in qualche modo, invece di abbandonarlo in un angolo non appena si è esaurito lo stupore per il gingillo estroso.

Mentre guardavo la scena, con sempre più cocente delusione per le buone occasioni sprecate, mi venivano in mente quei bambini un po’ viziati, i quali, appena andavi a casa loro a fare i compiti, ti correvano incontro urlandoti in faccia “Guarda che cos’ho!” mentre contemporaneamente ti sventolavano sotto il naso un giocattolo nuovissimo e spaziale. Giocattolo che finiva immancabilmente in un angolo remoto della cameretta tre secondi dopo il tuo “Oh!” entusiastico. Insomma, forse Fantoni ha peccato di vanità.
O forse è colpa di Ottavia Piccolo, la quale ormai non riesce nemmeno più a dirti “Buongiorno” senza quel tono declamativo fuori moda da Stanislavskij in poi. O forse è Vittorio Viviani. In realtà mi ha strappato qualche sorriso in più rispetto alla collega, forse è lui  il vero colpevole: i balbettii masticati e rimasticati dall’alba dei tempi non fanno più ridere, la sua faccia offriva spunti più interessanti, ma solo quando non era occupato a rifilarci i soliti cliché.
O forse era colpa del musicista che creava la colonna sonora dal vivo appollaiato in un angolo, nella semioscurità, solo per un capriccio di stile. Sembrava poveraccio che fosse stato messo lì per produrre uova anziché per suonare.
Sì, sì, lo capisco anch’io che la scenografia, un piccolo palco dentro un palco vero, riflette il senso di finzione nella finzione, un circolo nel quale è difficile approdare alla verità, la quale è solo soggettiva. Solo che vorrei si fosse meno didascalici, si sottolineasse meno l’ovvio, si pensasse che già Pirandello parlava di questa soggettività del vero da un pezzo, e anche con testi teatrali, e che forse, a cercare bene, si trova anche il tema del dubbio.
Ma il mio dubbio è: questo spettacolo era davvero, davvero, davvero necessario? La mia risposta è no.
(RE CARLO)

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