MEL CAPONE E GLI AFFARI DI FAMIGLIA

 

Un uomo di sani principi: quello della famiglia, innanzitutto. Assicurare un lavoro a parenti e amici è stato un dovere morale per l’ex assessore alla viabilità Melino Capone, se non fosse che l’azienda “familiare” è la Ancol Sicilia, l’Associazione nazionale delle Comunità di lavoro, una onlus senza scopo di lucro dove l’attività viene garantita da fondi pubblici. Denaro che, secondo l’accusa formulata dal sostituto procuratore Camillo Fulvo,  sarebbe stato percepito indebitamente dalla Regione siciliana dal 2006 al 2011. Una cifra importante: 13 milioni e mezzo di euro che, a conclusione di una certosina indagine, ha portato ad ipotizzare nei confronti di Capone, già commissario regionale dell’ente,  il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

Infatti, secondo quanto emerso dall’inchiesta, nonostante la revoca dell’incarico di commissario regionale dell’Ancol,  Melino Capone avrebbe continuato a presentare progetti formativi regolarmente finanziati per il 70% dal fondo sociale europeo, il 21% dallo Stato e  il 9% dalla Regione Siciliana.

La “trama” è quella del romanzo: una lettera che “sparisce”, una omissione che consente il perpetuarsi di un incarico ormai revocato. Ad estromettere Capone dall’incarico di Commissario Regionale, infatti,  era stata l’Ancol nazionale, con una lettera alla Presidenza della Regione Siciliana, dove si annunciava anche che in Sicilia non esistevano più circoli e sedi regionali della onlus. 

Una missiva che, secondo l’accusa, sarebbe stata archiviata senza che del contenuto fossero messi a conoscenza i dirigenti regionali. La lettera sarebbe stata fatta sparire da Patrizia Di Marzo, funzionario direttivo della segreteria dell’avvocato generale della regione siciliana e Anna Saffioti responsabile dell’area affari generale della regione entrambe indagate nell’inchiesta. Ovviamente le indagini dovranno anche chiarire se questo “piccolo favore” sia stato compiuto per generosa convinzione dell’ottimo lavoro svolto dall’ex commissario o in cambio di qualcos’altro.

Resta il fatto che dal 2006, il dirigente “fantasma”, avrebbe ottenuto finanziamenti per avviare corsi di formazione professionale, con l’apertura di nuove sedi a Barcellona, Priolo, Catania, Palermo e Mirabella Imbaccari nelle quali sono state assunte decine di persone.

Ma tra gli assunti,   così come accertato dalla guardia di finanza di Messina, non ci sono solo giovani e competenti docenti o personale amministrativo. A meno che la famiglia Capone al completo sia da considerare un nucleo di esperti nella medesima  materia: la formazione.

I finanzieri infatti hanno accertato  che Capone ha assunto il padre per 3500 euro al mese, la madre per 5500, il fratello per 1700 euro al mese, la cognata per 2000 euro al mese e tre cugini per 1400 euro al mese.  Non solo: nell’elenco figurano anche la moglie e la sorella dell’ex sindaco Buzzanca, l’ex segretario e un cugino del senatore Nania e la sorella dell’assessore provinciale all’agricoltura Cusumano.

E se nessuno dei dipendenti risulta attualmente indagato, certo bisognerà comprendere se dei tredici milioni e mezzo di euro che, secondo gli inquirenti sarebbero stati percepiti indebitamente, resta qualche beneficio extra-familiare.  Insomma se in mezzo ai tanti “figli di” ci sia qualcuno che abbia davvero meritato il posto di lavoro che occupa. Dovrebbero essere loro i primi scandalizzati, dovendo  a seguito di questo “scandalo”  giustificarsi per il discredito che una simile gestione “familiare” getta sull’operato di tutti.

Che l’Ancol, così come altri enti di formazione regionale, siano un serbatoio di voti è risaputo. Ma quello che la Guardia di Finanza ha scoperto, è sintomatico di come la mancanza di pudore sia proporzionale all’idea di impunità e all’arroganza di una certa politica che pensa di non dover fare mai i conti con la legge e con l’indignazione sociale.

 

 

 

 

Partecipa alla discussione. Commenta l'articolo su Messinaora.it