ANDREOTTI E LA TEORIA DEI DUE FORNI

 

Poche ore fa é morto Giulio Andreotti. Quando Andreotti enunciò la teoria dei due forni eravamo in tre o quattro intorno a lui, alla buvette di Montecitorio. Lo fece con semplicità, con naturalezza, quasi non sapesse, e lo sapeva benissimo, che le sue parole l’indomani avrebbero fatto il giro dei giornali quotidiani. “Se debbo comprare il pane”, disse,” e ho nella mia stessa strada due forni e uno di questi me lo fa pagare caro o mi da un prodotto scadente, vado dall’altro”. Metafora che racchiude l’essenza dell’orientamento con il quale Andreotti ha affrontato sessant’anni di vita politica.

Centro-destra o centro-sinistra, rapporto preferenziale con i comunisti o con i socialisti, ognuno di questi corni del dilemma può andar bene, a patto che al centro ci sia sempre la Democrazia cristiana e al centro della Dc lui, il divo Giulio. Randolfo Pacciardi, il vecchio leader repubblicano, era un estimatore di De Gasperi, che aveva conosciuto bene, e una volta, parlandomi dello statista trentino, accennò anche ad Andreotti. “De Gasperi”, mi disse, “era un uomo molto morale, saggio. La mia meraviglia era che accettasse con piacere la collaborazione di Andreotti, non perchè non fosse leale e intelligente, ma perchè erano due caratteri e due generazioni agli antipodi: rigore da un lato e spregiudicatezza dall’altro. Fui presente a un episodio significativo. I liberali volevano nel governo Porzio, popolare avvocato napoletano e uomo politico senza grandi meriti. De Gasperi non lo voleva. Andreotti era di parere opposto. Se vuoi i liberali, gli diceva, devi prendere Porzio, anzi, fai un gran gesto e offrigli la vicepresidenza. E De Gasperi, rivolto a me: ma li senti questi giovani, come sono spregiudicati. Fu poi Andreotti che la vinse e Porzio divenne vicepresidente del Consiglio”.
Ecco, la spregiudicatezza di Andreotti. Se ne sono scritti libri, come della sua ironia e del suo senso dell’umorismo. A proposito di queste due ultime qualità, val la pena di raccontare un episodio che fece qualche anno fa il giro della redazione de Il Messaggero. Intervistatore abituale di Andreotti era Mario Stanganelli, del servizio politico. Mario è un cultore d’arte e aveva attratto l’interesse dell’ex presidente del Consiglio accompagnandolo nel suo abituale giro antelucano per le chiese di Roma e illustrandogli quadri, stili architettonici, sculture. Ma per far questo e ottenere subito dopo l’intervista, Stanganelli doveva alzarsi molto presto ed essere al portone dell’intevistando prima dell’alba. Una volta rinunciò del tutto al sonno notturno. Fece tardi per suo conto e poi andò a piazzarsi in macchina davanti al portone della casa di Andreotti. I poliziotti di guardia lo conoscevano e non fecero obiezioni. Ma era notte fonda e Mario a un certo punto si appisolò. Fu svegliato di soprassalto da un energico tamburellare sul vetro dell’auto. Si girò imbambolato verso il rumore ed ebbe la sorpresa di vedere Andreotti che lo guardava con un sorriso ironico e gli sussurrava: “Stanganelli, che fa, dorme?”.
Fino agli ultimi giorni la giornata di Andreotti è lunghissima e intensa. Scrive e prende appunti ovunque. E da questi appunti nascono i suoi numerosi libri. Storie della chiesa cattolica, della politica italiana, volti di papi, di statisti, personaggi, ricordi. Naturalmente, scrive solo ciò che vuol far sapere a tutti. Ne avrebbe da raccontare di avvenimenti ed episodi della vita politica, e non soltanto politica, accaduti dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi e sui quali non è mai stata fatta piena luce! Questi, però, sono tabù. Un autentico colpo di genio Andreotti lo ebbe nei primi anni Settanta, quando decise di scrivere la storia di Pellegrino Rossi, assassinato il 15 novembre 1848 a Roma, sulle scale del palazzo della Cancelleria, dopo appena sessanta giorni di guida del governo papalino di Pio IX.
Il libro, dal titolo “Ore 13: il Ministro deve morire”, si pubblica nel 1974. Appena due anni prima, nel 1972, Andreotti aveva presieduto un governo di centro-destra, con i socialisti all’opposizione. Ma i tempi in questi due anni erano cambiati. Nel 1973 ritornano i governi di centro-sinistra e, ciò che più importa, Enrico Berlinguer lancia la proposta di un “compromesso storico” con la Democrazia cristiana. Che c’entra Pellegrino Rossi? C’entra. Perchè la morte del primo ministro papalino fu attribuita a una cospirazione di nemici dello Stato pontificio, fautori dell’unità d’Italia. Nel processo, che fu celebrato nel 1854 dal Supremo tribunale della sacra consulta, furono condannati sette popolani, di cui erano noti i sentimenti e le azioni antipapaline. Due di questi furono condannati alla ghigliottina. Ma Andreotti con il suo libro scava nelle vicende di quel tempo e scopre che Rossi, nei pochi mesi del suo incarico di primo ministro, aveva intessuto un costante rapporto con il governo piemontese, nel tentativo di addivenire a una federazione di Stati italiani. E che questo tentativo era stato duramente boicottato dalla Curia romana, alla quale Rossi era profondamente inviso. 
Chi ha fatto uccidere, allora, Pellegrino Rossi? Andreotti lascia intendere che i mandanti, al di là delle apparenze, potevano essere benissimo quegli ambienti papalini ai quali il laico Rossi dava molto fastidio. Ne vien fuori la figura inedita di uno statista, Rossi, appunto, che, classificato ufficialmente come devoto servitore dello Stato pontificio, si rivela in realtà un patriota risorgimentale. In qualche misura Andreotti si identifica nel primo ministro del Papa-re. Voi credete, sembra dire tra le righe, che io sia un uomo di destra, ma vi sbagliate. Anche se le apparenze e la mia storia politica sembrano indicare questa mia dislocazione, non è così. Aspettate e vedrete. E infatti…Il governo di centro-destra del 1972 ha vita effimera. Dopo pochi mesi ritorna il centro-sinistra guidato da Rumor. Segue un nuovo governo Moro. E nel 1976, dopo le elezioni anticipate, nasce per la prima volta un governo monocolore democristiano, della “non sfiducia”, basato sull’appoggio indiretto, tramite l’astensione, dei comunisti. Chi lo guida? Andreotti. Due anni dopo, l’anno del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, altro passo avanti dell’apertura della Dc ai comunisti. E’ il governo di “solidarietà nazionale”. Chi lo guida? Andreotti.
In quegli anni Giulio Andreotti non è più un nemico per i comunisti. Anzi. In tutta la vicenda Moro marciano insieme lungo la strada dell’intransigenza. Gli unici ad opporsi, a tentare concretamente di salvare la vita dello statista democristiano, sono i socialisti e i radicali. Ma il loro tentativo si rivela inutile. Nemico del Pci Andreotti lo ridiventa anni dopo. Sono i tempi del cosiddetto CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) e comincia da qui la demonizzazione comunista dell’ex alleato, il tentativo di liquidare per via giudiziaria lui e un cinquantennio di storia italiana. Comincia la lunga vicenda dei processi che lo vogliono uomo di mafia e mandante dell’uccisione di Mino Pecorelli. Si concludono con l’assoluzione dell’imputato. Nessuna responsabilità penale. Resta il problema della responsabilità morale.

Davvero non sapeva che il suo luogotenente in Sicilia, Salvo Lima, avesse rapporti con la mafia? Lima era l’uomo che riempiva di voti il serbatoio della corrente di Andreotti all’interno della Dc. Forse conveniva fingere di non sapere. Ma questa è un’altra storia. Che non leggeremo mai, soprattutto ora che Andreotti ci ha lasciati. (GIUSEPPE LOTETA)

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