Compravendita del bambino rumeno, il Tribunale della libertà ordina la scarcerazione di tutti gli indagati. 30 giorni in carcere per un reato fantasma

di Michele Schinella – Trenta giorni di carcere per un reato fantasma.

Accusati di un reato che secondo la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione citata dai magistrati che hanno ordinato la misura cautelare non poteva essere loro contestato, 8 persone sono state messe dietro le sbarre. Il Tribunale della Libertà ha ora disposto per tutti la scarcerazione. L’inchiesta della Procura di Messina sulla compravendita del bambino rumeno di nove anni che ha impegnato per giorni la stampa nazionale, attirata dalla conferenza stampa tenuta prima ancora che ci fosse il vaglio di un giudice, ha subito un durissimo colpo.

I giudici del riesame nella tarda serata del 26 marzo, riqualificando il reato ed escludendo la sussistenza di quello, gravissimo, di Alienazione e acquisto di schiavo e di associazione per delinquere, hanno disposto la scarcerazione di Lorella Conti Nibali e del marito Calogero Conti Nibali, “gli acquirenti” del bambino. Stesso provvedimento è stato adottato per Vincenzo Nibali, cognato dei coniugi, che si era prodigato per procurare il bambino. Per i tre (difesi dal legale Vincenzo Pruiti) è stato disposto l’obbligo di dimora.

I giudici hanno anche ordinato la scarcerazione della rumena di 37 anni madre del bambino, “la venditrice”, secondo l’accusa. Per la  donna (difesa dall’avvocato Alessandro Barbera) è stato prescritto l’obbligo di firma alla polizia giudiziaria.

L’arresto in carcere  è stato commutato negli arresti domiciliari per Aldo Galati Rando (difeso da Carmelo Scillia), uno degli “intermediari”, sempre per gli inquirenti.

Il 9 marzo il Tribunale della Libertà, sempre sulla base della nuova qualificazione giuridica dei fatti, aveva revocato il carcere per gli altri due intermediari della compravendita arrestati in auto insieme ai due rumeni all’arrivo a Messina: Francesco Galati Rando (assistito dal legale Decimo Lo Presti), che – secondo gli inquirenti – aveva incassato 30mila euro dai coniugi acquirenti; e  il barese Vito Calianno (patrocinato da Alessandro Faramo), che non  aveva incassato neppure un euro. Per entrambi erano stati disposti comunque gli arresti domiciliari.

Nella stessa giornata del 9 marzo era stato messo in libertà il figlio diciannovenne della donna rumena, fratello del bambino. Per questi non è stata prescritta alcuna misura cautelare

Il fratello maggiorenne e la mamma rumena, erano in carcere dalla sera del 24 febbraio 2015, quando al porto di Messina i carabinieri hanno bloccato l’auto in cui viaggiavano alla volta di Castell’Umberto in compagnia dei due intermediari, Calianno e Franco Galati Rando, e del bambino destinato ai coniugi di Castell’Umberto, che lo avrebbero adottato facendolo diventare un loro figlio. Da quella sera il bambino è stato affidato ad una comunità.

Il Tribunale della libertà, infatti, ha ritenuto che nei confronti di tutti gli indagati sussiste, in ipotesi, il reato nella forma tentata di “False attestazioni ad un pubblico ufficiale di qualità proprie o di altri”, reato commesso da “Chi dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona”.

Secondo il ragionamento del Tribunale della libertà tutti i protagonisti della vicenda sapevano che il bambino una volta arrivato in Italia sarebbe stato dichiarato all’anagrafe come il figlio dei coniugi Conti Nibali. Il bambino rumeno avrebbe così dato un volto al bambino mai venuto al mondo, ma la cui nascita era stata dichiarata il 27 gennaio del 2008. Tutti, quindi, secondo questa ricostruzione, hanno posto in essere “atti diretti in modo non equivoco” a consentire che ciò accadesse.

Il fratello maggiorenne e la mamma erano in carcere dalla sera del 24 febbraio 2015, quando al porto di Messina i carabinieri hanno bloccato l’auto in cui viaggiavano alla volta di Castell’Umberto in compagnia dei due intermediari, Calianno e Franco Galati Rando, e del bambino destinato ai coniugi di Castell’Umberto, che lo avrebbero adottato facendolo diventare un loro figlio. Da quella sera il bambino è stato affidato ad una comunità.

A tutti è stato contestato prima il reato Riduzione in schiavitù tentata dai due pubblici ministeri titolari dell’inchiesta, Maria Pellegrino e Liliana Todaro, e dal Gip Di Patti, Ines Rigoli; poi di Acquisto e Alienazione di uno schiavo consumata, dalla collega di Messina, Maria Militello. La pena prevista andava dagli 8 a 20 anni di galera.

I 4 giudici – a sostegno della loro tesi – avevano richiamato la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che però – sentenze alla mano, le stesse citate dai magistrati – aveva, a più riprese, affermato esattamente il contrario di quanto hanno sostenuto pm e Gip: e cioè che nel caso di compravendita di un bambino uti filius, cioè per l’adozione, non è configurabile né il reato di Riduzione in Schiavitù, né di Alienazione e vendita di uno schiavo (vedi articolo che racconta la vicenda).

Se non fosse stato contestato a tutti gli indagati il reato di Alienazione e acquisto di schiavo non li si sarebbe mai potuti mettere dietro le sbarre: la legge stabilisce che per poter mettere in carcere un indagato prima della condanna definitiva è necessario si proceda per un reato punito nel minimo con 5 anni di reclusione. (tratto da www.micheleschinella.it)

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