Una tenda di troppo. Senza casa, spazio pubblico e nuovi fascismi a Messina

di Pietro Saitta, sociologo –  “Intervento congiunto di vigili urbani e assistenti sociali, sgombero dell’accampamento. Avvio delle procedure per un trattamento sanitario obbligatorio. È così difficile vivere in una città normale? Nelle altre città ‘pazzi’ non ce ne sono?”.  È lecito immaginare che il giovane consigliere comunale messinese autore di questa  dichiarazione di “buon senso neoliberista” celebrerà come un doppio o, forse, triplo successo politico lo sgombero prima di una senza casa accampata in una tenda montata in un’aiuola antistante la sede centrale dell’Università e il Tribunale e, successivamente, di alcuni militanti politici intervenuti a esprimere la propria solidarietà alla donna. Anzi, non soltanto lo sgombero di quest’ultimi, ma addirittura il loro arresto per resistenza a pubblico ufficiale.

Un gravissimo problema quello della tenda, certo. E non per le problematiche sociali e personali che sottende, ma perché, per dirla con le parole di un altro cittadino, sodale intellettuale del summenzionato consigliere, “‘l’accampamento’ giace lì indisturbato e ininterrottamente perlomeno dallo scorso 19 agosto, quando stavamo facendo visitare la nostra bellissima città a una coppia di amici di Perugia e una dei due, mentre io mostravo loro il pregio architettonico di Palazzo Piacentini e del Rettorato dell’Università, ha notato allibita la tenda da campeggio. Quel che è seguito da parte nostra è stato soltanto la mancanza di parole e un profondo sentimento di vergogna”.

tendaDue dichiarazioni di buon senso e persino ordinarie, pronunciate con disarmante semplicità dai due suddetti rappresentanti della società “civile” messinese, che ampliano la galleria degli impieghi possibili per l’espressione “banalità del male”; la celeberrima formula adottata da Hannah Arendt per definire la traiettoria di Eichmann, un ordinario “uomo qualunque”, giunto paradossalmente ai vertici del sistema politico tedesco negli anni di Hitler in quanto idioticamente (nel senso greco di persona concentrata su sé stessa, sul privato e l’utile) calato nella realtà che gli si profila davanti e incapace pertanto di comprendere la portata umana delle proprie azioni.

Sintetizzando brutalmente, Eichmann è dunque in questa prospettiva il ritratto dell’uomo ordinario, che ben comprende cosa gli convenga dire e fare in una determinata situazione per trarne benefici, ma non il significato ultimo che le sue azioni hanno per la vita delle persone.

Che l’uso dell’espressione arendtiana e il richiamo a Eichmann e alla questione ebraica non siano un’esagerazione – come i molti “pragmatici” che si affollano in città si affretteranno purtroppo a notare ignorando le cose di cui discutono – sta nel fatto che quanto successo in questi giorni a Messina nasconde molte forme mentali dell’autoritarismo classico, oltre naturalmente che di nuovo tipo. La vicenda al centro di questa riflessione, pur compiendosi nel presente e nella città neoliberista, mette cioè in mostra quegli elementi di continuità tra autoritarismi e forme di violenza simbolica rappresentati in primo luogo dalla categorie e dalle pratiche  di occultamento e  rimozione dell’indesiderabile.

Così come gli autoritarismi classici intendevano rimuovere la difformità e gli elementi di contaminazione del corpo sociale (in primis, ma non soltanto, l’ebreo), i nuovi autoritarismi intendono infatti rimuovere i corpi non ordinari: quelli, per l’appunto, che non rendono la visione della città (“Palazzo Piacentini, il Rettorato”) simili a una cartolina. Paesaggi, cioè, liberi da qualsiasi visione che ricordi il disagio, la povertà e le brutture.

Come nel film “I mostri” – in cui uno dei protagonisti siede in compagnia della moglie in una sala cinematografica e, dinanzi alle immagini davvero drammatiche di un eccidio nazista, non trova di meglio da fare che commentare lo stile del caseggiato su cui si compie il massacro e su cui eventualmente ricalcare la propria villa in costruzione – uno degli autori delle summenzionate dichiarazioni pubbliche non afferma di provare pietà per la condizione in cui è costretta a vivere una donna, ma vergogna per la presenza di un “accampamento” e, sostanzialmente, disagio per la cattiva figura fatta davanti agli ospiti perugini (provenienti, possiamo leggere tra le righe, da un luogo di superiore civiltà).

Analogamente il consigliere comunale suo compagno di fede politica, che è forse il principale protagonista di questa vicenda, pur appellandosi, oltre che alla forza pubblica, al servizio sociale, fa però soprattutto appello al Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), richiamando quell’immaginario e quelle pratiche di intervento nel sociale evidentemente così ben radicate nella cultura di certe sezioni della società italiana, ereditate direttamente dal fascismo (si veda il bel libro di Matteo Petracci, recentemente uscito per Donzelli, intitolato “I matti del duce” per una prova di quanto affermato).

Ma se quelle sin qui discusse sono le tracce dell’autoritarismo classico rinvenibili nel discorso dei due cittadini pubblici – quello che ai rischi della contaminazione e della difformità non risponde giammai politicamente e socialmente, o anche soltanto con l’umana pietà, ma con la neutralizzazione dei soggetti all’interno delle istituzioni totali (ospedali psichiatrici, ma anche Centri di identificazione ed espulsione per immigrati, prigioni etc.) – la vicenda mostra altresì i segni dei nuovi autoritarismi e occultamenti.

In un classico testo, il sociologo Kai Ericson delineava la figura dell’“imprenditore morale” (un individuo, ma anche un gruppo di interesse) specializzato nell’imporre proprie visioni del mondo, per lo più caratterizzate da contenuti demagogici e di “buon senso” (cioè “facili” e corrispondenti a un sentire implicito diffuso o, per lo meno, a un “sentimento del mondo” che ha ottime probabilità di diventare comune una volta che sia esplicitato e reso dicibile). Spesso queste visioni del mondo propugnate dagli imprenditori morali presentano, oltre che interessi politici non immediatamente chiari, un carattere emozionale ed etico. Parlano cioè all’istinto delle cittadinanze a cui si rivolgono e si caratterizzano innanzitutto per occultare gli elementi causali dei problemi a tutto vantaggio di altri, del tutto triviali e solo marginalmente connessi.

Sintetizzando, per questo discorso imprenditoriale-morale-emozionale la povertà (quella, per restare al nostro caso, che fa dormire una persona in tenda) non è un problema innanzitutto strutturale, ma una responsabilità individuale a cui non si forniscono risposte politiche, ma soggettive: il Tso, ossia l’internamento coatto in reparto psichiatrico. Povertà e homelessness cessano così di essere problemi relativi all’economia, allo stato sociale o all’organizzazione dei servizi sociali e diventano invece una patologia e un disordine mentale. Ma anche semplicemente una colpa o un reato, per fare fronte ai quali si auspicano infatti risposte che impieghino la forza pubblica (i “vigili urbani”, per restare alla dichiarazione) e il codice penale.

Ma ai fini di una discussione sui processi di banalizzazione del male e, insieme, sui nuovi autoritarismi e l’imprenditoria morale, la vicenda è interessante anche per il suo seguito: innanzitutto per una lunga, ulteriore dichiarazione del consigliere comunale al centro di questa disquisizione, apparsa sui media locali, che trasforma una ordinaria vicenda di povertà urbana in una campagna politica rivolta in primo luogo contro il sindaco Accorinti (dal quale, per inciso, ho preso pubblicamente le distanze nell’ottobre del 2014, in ragione della sua gestione della questione profughi e che non ho ragioni né volontà di difendere qui) e poi contro “l’anarchia”, che si manifesterebbe in occupazioni, scritte murarie, in dichiarazioni a mezzo internet di supporter dell’illegalità e del disordine e, per l’appunto, in tende montate impunemente nel bel mezzo della città.

Soprattutto, questo ulteriore comunicato del summenzionato consigliere asserisce che:

“in questa Città, da quando è stato eletto Sindaco Renato Accorinti ogni questione si è “integralizzata”, ogni vicenda è diventata occasione per contrapporre ideologie e valori.  A dispetto dei verbali tentativi di “pacificazione” portati avanti dal Sindaco, la Città è sempre più terreno di scontro […] Farsi una passeggiata in un borgo della Città, cancellare una scritta da un monumento, pretendere che una tenda o uno stendino non stiano in mezzo alla strada o dinnanzi al Tribunale, non è di destra, non è di sinistra è solo BUON SENSO! (grassetti e sottolineati, in originale nel testo).

Tralasciando il problema delle verità, per cui, notoriamente, non vi è più da tempo nessun rapporto tra il Pinelli e Accorinti e che entrambi – certamente il Pinelli – si considerano avversari politici e non certamente degli alleati, si tratta comunque a mio avviso di passaggi preziosi, da illustrare e diffondere perché mettono a nudo l’idea  di spazio pubblico come luogo della negazione.

Negazione della presenza fisica del disagio, come abbiamo già visto; ma anche della discussione su temi pubblici. In questa weltanschauung per nulla straordinaria, che rimarca, insieme ad altre vicende, l’ingresso di Messina nell’ideologia neoliberista e nel fascismo del terzo millennio, contrapporre ideologie e valori alle azioni pubbliche non è considerata una praticabile auspicabile che qualifica di per sé la democrazia, ma è una forma di “integralizzazione” delle relazioni politiche. In modo simile, pretendere che le città siano sostanzialmente vetrine prive dei segni visibili del conflitto e della drammaticità delle situazioni umane lì contenute non viene rappresentato come un fatto politico – uno tra i principali e più temibili del tempo presente – ma come una pretesa di “buon senso”, addirittura affrancata dall’eterno dilemma “destra-sinistra”.

A ben guardare, quel che apprendiamo da questo illuminante comunicato è, insomma, che i fenomeni di affollamento carcerario, le morti per Tso, la sicurizzazione dello spazio pubblico con le sue importanti conseguenze sulla libertà e la riservatezza, i tagli alla spesa sociale, la rigenerazione urbana e i fenomeni connessi di deportazione delle popolazioni a basso reddito non sono questioni politiche, ma di buon senso. Proprio come per Eichmann, del resto; per il quale, non a caso, l’eliminazione degli ebrei non era altro che questo: semplice buon senso.

In conclusione, se è forse superfluo soffermarsi sulla miseria umana che certe intraprese morali svelano, vorrei pubblicamente ringraziare quelli che considero gli unici umani in questa triste vicenda: quei militanti del Pinelli che, a quanto apprendiamo, hanno sacrificato la propria libertà personale a favore di una causa da cui avrebbero potuto tenersi lontani e che si ritrovano così agli arresti domiciliari. Con le parole William Sheridan Allen, grazie a voi per ricordarci come non si diventa nazisti.

 

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