Quel che resta di Pier Paolo Pasolini, quarant’anni dopo

Ho paura che quel che resti di Pasolini sia soltanto una misera icona pop, un po’ come accade con Che Guevara, manca poco che ce lo ritroviamo stampato sulle magliette”. Con queste parole Silvia Leonzi, docente di “Industria culturale e Media studies” al Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociologica de “La Sapienza” di Roma, insieme a Christian Ruggiero, ricercatore in “Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi”inaugura il seminario “PPP-In direzione ostinata e contraria, quarant’anni dopo”, quattro ore dense di spunti e contributi sul grande intellettuale impreziosite dalla proiezione di quindici minuti del documentario a lui dedicato e prodotto dalle Teche Rai.

Cosa resta dunque di Pasolini?

Icona pop. Una definizione che stride parecchio con la memoria di colui che è stato poeta, scrittore, giornalista, intellettuale, regista, sceneggiatore e quindi artista poliedrico e multiforme. A finire sotto la lente di ingrandimento è dunque l’utilizzo strumentale e politicamente connotato del suo pensiero. Su quel corpo macinato dalla violenza fisica e dalle ruote della sua stessa auto, in parecchi ci ballano ancora. Quella giacchetta, ritrovata parecchi metri distanti il suo inerme cadavere, continua ad essere strattonata.

La società dei consumi e la mutazione antropologica. Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi” affermava Pasolini in un articolo pubblicato sul Corriere Della Sera il 9 dicembre del 1973. Il totalitarismo massmediatico che riesce laddove aveva fallito il Fascismo: l’omologazione di un popolo che viene costretto ad assimilare l’ideologia del consumismo, senza che nessun’altra possa annidarsi in esso, la condizione economica che detta tempi e leggi della bassa cultura, annullando ogni differenza, dunque ogni autenticità. “I centri creatori, elaboratori e unificatori del linguaggio, non sono più le università, ma le aziende”.

Il frocio comunista. Lontano dalla borghesia, vicino alla gente di borgata. Una di quelle notti in cui Pasolini si spingeva oltre, affamato dalla fame di sesso mascherata da ricerca d’amore gli fù letale: lì terminò indegnamente la sua esistenza e iniziò il mistero. “Mistero? Macchè, semmai segreto. Il mistero è qualcosa che non si può comprendere, il segreto invece è qualcosa che non si vuole far sapere, ma è successa chiaramente. Sono due cose diverse” incalza Silvia Leonzi. Ed accanto a lei siede Franca Leosini, la giornalista che nel 2005, dopo un lavoro lungo dieci anni, convinse Pino Pelosi, il “ragazzetto” di diciassette anni passato alla storia per essere l’assassino di Pasolini, a confessare la propria verità ad una puntata della trasmissione da lei condotta su Rai Tre, “Ombre sul giallo” che di fatto più che riaprire un caso, confermò la tesi per la quale più persone avevano ucciso il poeta di Casarsa: “Io sono innocente, non ho ucciso Pasolini. Ho fatto la mia galera e i miei genitori sono ormai morti, quindi adesso posso parlare e non temo nessuno- affermava in diretta televisiva Pelosi.- Quella sera Pasolini mi praticò del sesso orale, ma non è vero che mi costrinse a fare cose oscene anzi, fu un vero gentiluomo. All’idroscalo venimmo assaliti da tre persone con accento siciliano o calabrese, non saprei dire. Una picchiò me, le altre due massacrarono Pasolini”.

Il provocatore. “Abolire la televisione” che annichilisce la comunicazione, senza più significato: chissà cosa penserebbe Pasolini oggi della comunicazione politica, della non-informazione dei talk show, delle riforme a colpi di Tweet. “Abolire la scuola dell’obbligo” che promette quel che mai i figli degli operai possono ottenere in quel contesto storico, ovvero lo status sociale piccolo borghese delle “nozioni marce”. Questo scriveva sul Corriere della Sera il 18 ottobre del 1975, lo stesso giornale in cui veniva pubblicato solo un anno prima “Cos’è questo golpe? Io so”: la verità di un intellettuale senza prove sullo stragismo degli anni 70′ o semplice provocazione?

Il regista. Su di lui si è ricreduto il cinema italiano che, al suo debutto, snobbava l’intellettuale in cerca di un nome dietro la macchina da presa. Eppure in“Accattone”, in cui si dava modo secondo Pasolini di sfogare la vena razzista degli italiani contro gli emarginati, piuttosto che lo scandaloso “Teorema”, cinema e letteratura si fondono, così come l’allegoria della sessualità in Salò e Le 120 giornate di Sodoma”, insieme alla devozione cattolica in “Il Vangelo secondo Matteo”, che la Chiesa definì, solo dopo un’aspra critica al tempo, una delle migliori opere sulla vita di Gesù nella storia del cinema.

Il profilo di una città. Futuro e Progresso, spiega Pasolini inquadrando la città di Orte deturpata dalle case popolari, non sempre coincidono. Proprio non si dava pace nel constatare come la perfezione stilistica della naturale conformazione della città fosse violentata dall’architettura moderna ma estranea. Mentre Sabaudia, che il Fascismo aveva assunto a simbolo estetico dei propri canoni, tradiva il regime stesso, che non era riuscito a incidere nella realtà provinciale non scalfita dalla ideologia.

Il poeta. Al suo funerale Alberto Moravia urlava disperato: “è morto il poeta e di poeti non ce ne sono tanti al mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo”. Perchè il poeta è sacro.  

@RobertoFazio

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