Brexit: quando si è “leoni e non coglioni”. Storia di un popolo sovrano

di Eleonora Urzì Mondo – La BBC parla di “Shock horror”, gli exit poll (non ufficiali ma commissionati da grandi colossi internazionali e istituti di credito) non c’hanno preso neanche per un po’, e stamattina i britannici si svegliano sotto un cielo diverso, privo delle stelline che capeggiano sulla bandiera di un’Europa a cui hanno detto di no. A dire il vero non c’è niente di sorprendente in questo: già da tempo si conosceva la posizione dei sudditi di Queen Elizabeth. Certo è che in questi mesi di campagna referendaria si è fatto di tutto per far cambiare idea agli inglesi sostenitori del “leave” così come per screditare sul piano internazionale gli esiti delle interviste popolari. “È provato che quando gli inglesi rispondono ai sondaggi non sono lucidi: alle 5 del pomeriggio uno su tre è già ubriaco”, si è detto. E invece sono sobri eccome! Un distacco che avverrà nel medio e lungo periodo quello che vien fuori dal voto di ieri: non una rapida rottura di un cordone che, in realtà, non si era mai saldato, ma un processo graduale e lento che richiederà dai 2 ai 5 anni.
Ci saranno conseguenze? Certo, a partire da quelle interne all’isola: adesso infatti, la Scozia e l’Irlanda del Nord pare vogliano chiedere un ulteriore referendum, questa volta per lasciare il Regno Unito e potersi riaffrancare a Bruxelles. Ma cronaca a parte, guardando nel dettaglio di quel che è avvenuto, non si può non notare che la situazione fa storia a sè. Tra le analisi di casa nostra -anche di cittadini al bar- non sono mancati i commenti di appoggio alla scelta del popolo britannico, solidarizzando in nome di una consapevolezza che condividiamo.
Errore macroscopico pensare questo: noi non sappiamo cosa significhi Europa per chi vive a riparo della Union Jack. La Gran Bretagna ha da sempre goduto di uno status particolare come Paese membro, non acquisendo la moneta unica ad esempio, nè dovendo legarsi a dei trattati che invece altrove sono vigenti e vincolanti (Schengen su tutti).
Il peso comunitario che schiaccia le nostre vite, la nostra economia, regola la nostra impresa e impone i nostri import ed export o le politiche sociali, di accoglienza, di riforme -a partire dalla strategia lacrime e sangue di Monti- gli inglesi non li hanno mai sfiorati. E se da Bruxelles qualcuno si fosse mai permesso di comandare in casa della Regina, è evidente che sarebbe stato accolto da pernacchie potenti. I britannici sono leoni non coglioni!
No, gli inglesi ignorano il vero peso che l’Europa ha per chi vi sia dentro senza tutele particolari. Ciononostante non accettano diktat e riconoscono che lo Stato sovrano è il loro e ha sede nei propri confini e non fuori. Sono state (specie le ultime) settimane di campagna serrata: non sono mancati i complottismi e le logiche terroristiche. Non sono in pochi ad averci visto una longa manus propagandistica nell’omicidio della deputata laburista Helen Joanne Cox -sostenitrice del Remain- avvenuto per mano di un fanatico membro del gruppo di “Britain, first”.
Ma, ipotesi a parte, ci sono dei fatti certi, come la comunicazione allarmistica che è provenuta da importanti stakeholders, dalla stampa locale ed estera, persino dai comparti singoli del mercato, le imprese, la City e persino il calcio. Fuori dalla zona Euro=crollo della sterlina, paralisi del calcio inglese (procuratori sono arrivati ad affermare di essere pronti a ritirare i propri giocatori, per non parlare della Premier League a rischio e le centinaia di disoccupati- già questo, in Italia, sarebbe bastato per far vacillare ogni ideale-), emigrazione di aziende, mancanza di tutele per un europeo che vive e vuol continuare a vivere in GB e così via (clamoroso falso, giacché i diritti acquisiti di cui beneficiano i cittadini stranieri che già lavorano in Inghilterra sono garantiti dalla convenzione di Vienna del 69).
Anche uno solo di questi spauracchi sarebbe bastato a far cambiare idea anche al più antieuropeista degli italiani. Invece gli inglesi se ne sono bellamente fregati e hanno continuato per la loro strada. Una strada su cui non li ha messi un rivoluzionario o un sovversivo ma direttamente il loro Primo Ministro. È stato Cameron infatti a volere, promuovere e concretizzare la circostanza referendaria. In Italia si è abituati a leggere in un referendum qualcosa che freni l’agire di un Governo sordo alle istanze o che obblighi il legislatore ad adeguarsi ai tempi, invece oltreManica a proporlo è stato proprio il premier per corroborare la propria posizione.
Ora però apriamo una parentesi perché certamente c’è un modo di intendere e vivere la democrazia e il potere molto diverso dal nostro, ma non è che l’ospite di Downing Street sia un Che Guevara moderno. Le ragioni alla base della sua azione sono molto politiche e risiedono nell’avanzamento di una frangia antieuropeista, capeggiata da Nigel Farage, e tutt’altro che moderata sotto i cui colpi temeva di poter cadere.
Ond’evitare sorprese, Cameron ha messo le mani avanti e si è fatto lui stesso promotore di un’iniziativa tesa a dargli conferme o smentite circa il sentimento popolare. Ed è stata sì una vincente mossa (comunque è vincente data l’affluenza alle urne e il riverbero che l’operazione ha avuto) ma certamente rischiosa, per cui una bella dose di coraggio era necessaria. Ovviamente non aspettiamoci mai che cose simili possano accadere dalle nostre parti, non fosse altro che perché neanche siamo così consapevoli da pretenderle.
Già, consapevolezza è la parola d’ordine, quella che ha mosso gli inglesi a decidere. Loro hanno una storia, una cultura, una formazione che gli consente di sapere chi sono e da dove vengono e quindi, per esclusione, dove sanno di non voler andare. Se la GB fosse rimasta in casa Europa, dopo questo referendum avrebbe avuto comunque più potere e autonomia, rimarcando la propria condizione di eccezione alla regola pur dentro la regola.
E se ieri la finanza era ottimista oggi si sveglia nel panico -quello che si vuole ingenerare- :
sterlina crollata e borse asiatiche sotto shock, per non parlare del picco dello Spread.
Ecco dunque che siamo al punto cruciale: pensate che in 24 ore sia successo qualcosa di vero, concreto, tangibile? Assolutamente no. Detto questo non ci saranno lezioni di economia e finanza tra queste righe, solo un invito: riflettiamo bene quando ci si offrono dati che non sono reali, quando si nominano agenzie di rating come se a parlare fosse Dio a Mosè sul monte Sinai.
E quando ce lo chiede l’Europa domandiamoci se sia davvero l’Europa o se invece l’UE non venga usata come scarica barile dai nostri politici immobili.
D’altra parte per uno che esce c’è uno che entra: la Turchia è sempre con un piede più dentro all’Europa col beneplacito dei big della comunità che strizzano entrambi gli occhi ad Erdogan. Concludiamo con i dati riportati dal Sole 24 Ore: “Secondo l’Ocse la brexit causerebbe un grave shock negativo per l’economia e indebolire la crescita del PIL per molti anni, pari a un costo per famiglia di 3200 sterline all’anno entro il 2030 ai prezzi di oggi, e fino a 5000 sterline nella peggiore delle ipotesi. Le conseguenze della Brexit sul nostro export: nel 2017 l’impatto sarebbe maggiore con una contrazione del 3-7%, tra i 600 milioni e gli 1,7 miliardi di euro in meno. Secondo il Fondo Monetario Internazionale il danno potenziale della Brexit oscilla nel 2019 tra l’1,5 (scenario limitato) e il 5,6% (scenario avverso) del Pil”.
E voi dite che tutte queste cose non sono state dette e ripetute fino alla nausea a tutti quegli inglesi che hanno detto sì alla Brexit? Ma è evidente che l’indipendenza, l’autonomia, la sovranità sono più importanti per un popolo che corrobora il tutto con la fiducia che nutre verso la corona sotto la cui ombra si sente protetto.
E noi grazie a chi dovremmo avere questo stesso sentire? La consapevolezza di chi siamo ci appartiene? L’identità nazionale è cosa che possediamo? E l’orgoglio? Nulla di tutto questo, quindi sognate pure adesso che l’effetto domino si attivi e negli altri Paesi ci si muova per la medesima manovra ma state pur certi che se fra mille anni riusciremo a votare per una condizione che a noi è stata imposta -stare in Europa, adottare una moneta unica, sottostare ad imposizioni terze, perdere la sovranità dello Stato, ecc- l’esito della nostra pronunciazione dipenderà comunque dalle storie che ci racconteranno e da come ci diranno di votare.
Del resto noi, in caso di crack, da qualche ombra dovremmo sentirci protetti? Quella del Quirinale?

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