“Il fenomeno mafioso. Il caso Messina”: il libro di Marcello La Rosa recensito dalla Prof. Antonella Cocchiara

Nella storia della mafia siciliana e dell’antimafia, il 1982 è un anno di svolta: anno di “morti eccellenti” (a distanza di pochi mesi, sono uccisi Pio La Torre, Paolo Giaccone e Carlo Alberto Dalla Chiesa), ma anche della prima, vera e innovativa risposta dello Stato repubblicano contro Cosa nostra e tutte le altre mafie.

A precederlo vi era stato lo scatenarsi, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, della violenza esterna (l’elenco è lunghissimo: da Peppino Impastato a Boris Giuliano, dal giudice Cesare Terranova a Piersanti Mattarella e al procuratore capo Gaetano Costa) e dell’avvio della più sanguinosa guerra interna, che inizia con la plateale uccisione di Stefano Bontade, continua con quella di Salvatore Inzerillo e lascia sul campo circa 1.000 vittime. È una guerra per la conquista del potere che si conclude con la vittoria di quella che Giuseppe Carlo Marino definirà “l’orda corleonese”, capeggiata da Totò Riina.

Un vero e proprio bagno di sangue e un attacco diretto in particolare contro la magistratura e le forze dell’ordine, per frenare il quale lo Stato avrebbe opposto una resistenza ambigua e contraddittoria, tra l’impegno generoso di alcuni suoi esponenti e le resistenze di ampie parti corrotte del suo apparato ufficiale. Ambiguità e debolezza che raggiungono il punto più alto il 3 settembre 1982, quando vengono uccisi il generale Dalla Chiesa, la giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Questo delitto segna però la svolta di cui parlavo all’inizio. Innesca, infatti, un effetto boomerang e la ferma reazione dello Stato che, dopo tre giorni, istituisce l’Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa e, dopo 10 giorni, cioè il 13 settembre 1982, approva la cosiddetta “legge antimafia”, ovvero la legge n. 646, detta Rognoni-La Torre, che avrebbe introdotto per la prima volta nel codice penale il reato di “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e la previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali.

La sanguinosa guerra di mafia dà impulso anche ad un altro fenomeno che sarà determinante per i successi dell’antimafia: induce infatti più di un “perdente” alla collaborazione con la giustizia. Non possiamo parlare di pentitismo: si tratta piuttosto di una sorta di “vendetta” esercitata legalmente. Comincia così una lunga vicenda che solo dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio sarà regolamentata attraverso la legislazione premiale del 1992 (legge 7 agosto 1992, n. 356, che converte il decreto-legge dell’8 giugno 1992, n. 306), con risultati positivi sia per la ricostruzione degli organigrammi che per l’individuazione dei responsabili di una serie interminabile di delitti.

Perché questa lunga ricognizione della storia della mafia in Sicilia a partire dal 1982?

Perché è proprio da questa data che ha inizio la storia ricostruita da Marcello La Rosa nel suo libro Il fenomeno mafioso. Il caso Messina, Armando Editore, presentato il 14 marzo scorso nella sede di “Addiopizzo” (un bene confiscato alla mafia).

Il libro accende i riflettori su ciò che accade dal 1982 al 1994 nella città dello Stretto, basandosi su un’attenta ricognizione delle fonti giudiziarie (verbali di polizia, testimonianze e sentenze) e su un’intervista a Iano Ferrara, il boss del villaggio CEP, fonti attraverso cui dà voce agli stessi esponenti della vita criminale messinese.

Nessuno dei grandi storici contemporanei della mafia – da Francesco Renda a Giuseppe Carlo Marino, da Salvatore Lupo a Umberto Santino – ne aveva finora parlato, finendo per avvalorare quello stereotipo secondo il quale Messina, la città babba, aveva tutt’al più una sua delinquenza locale, che non era tuttavia assimilabile all’associazione di tipo mafioso.

Dopo il libro di La Rosa, nessuno potrà più pensarlo.

Il volume si articola in due parti. Nella prima non solo si ricostruiscono storia e dinamiche dei clan messinesi, guerre intestine per l’affermazione della leadership, ascesa di alcuni clan e successivo declino a vantaggio di altri, molteplici fatti di sangue – storie che tutti noi avremmo dovuto tenere a mente e che Marcello La Rosa fa bene a riportare alla nostra memoria con la “forza della scrittura” – ma si delineano anche, dopo un confronto tra mafia siciliana e calabrese, i connotati della mafia messinese: una sorta di “mafia dell’area dello Stretto” con peculiarità sue proprie. Una mafia che presenta profili verticistico-militari attinti da “Cosa nostra”, coniugati però con alcuni tratti della ‘ndrangheta calabrese. Non la struttura familistica della ‘ndrangheta, ma di sicuro le liturgie dell’affiliazione, le qualifiche e la parziale autonomia dei clan che pure – almeno fino a una certa data – si riconoscono nell’egemonia di un capo, Gaetano Costa, detto facci ‘i sola. Mentre però la ‘ndrangheta, proprio per la coincidenza tra la sua struttura organizzativa e la famiglia naturale, conosce in modo limitato il fenomeno del pentitismo, la mafia messinese finisce per diventare un “caso di specie”: tutti i sopravvissuti alle guerre di mafia si pentiranno per poter trarre profitto dalla normativa premiale. Come dire: “tutti pentiti, nessun pentito”…

Nella seconda parte, l’Autore propone alcune linee interpretative delle dinamiche di gestione e di approvvigionamento del denaro, derivanti principalmente dal racket delle estorsioni e dal traffico di droga, entrambi determinanti sia per i proventi illeciti che ne derivano sia a dimostrazione del pieno controllo del territorio, ma anche da attività “minori”, come qualche rapina, l’usura e la gestione delle bische più o meno clandestine.

A proposito del traffico di droga, l’Autore si sofferma su Luigi Sparacio, definendolo un «esempio eccelso di intelligenza criminale». In realtà, Sparacio è un boss anomalo, che costituisce un caso unico in Italia per il fatto di essere un incensurato, mai condannato da un tribunale italiano, nonostante la sua vita sia stata dedicata interamente al crimine.

La Rosa studia il “caso Sparacio” e collega la sua intelligenza organizzativa alla puntuale applicazione della cosiddetta “teoria divisionale”. A differenza del clan Galli, che aveva concentrato in un’unica zona lo spaccio di droga, Sparacio aveva diviso il territorio cittadino in “rioni” e questi a loro volta in “quadranti”, rendendo così più efficiente e vicina all’utente la distribuzione della droga; creando occupazione dal momento che lo spaccio era affidato a un consistente numero di pusher; redistribuendo dal basso i proventi dell’attività criminale; facendo diventare più difficile alle forze dell’ordine l’individuazione dei capi-cosca, che erano esentati dall’operare direttamente sul territorio.

Sparacio è anche bravo a reinvestire i proventi dell’attività criminale. Una parte dell’ingente volume d’affari viene da lui “saggiamente” investita nell’usura. Centrale sarà il ruolo svolto dalla suocera, Vincenza Settineri, anche se entrambi negheranno sempre di aver “lavorato assieme”.

Il libro restituisce anche un’immagine fragile e sovraesposta del tessuto commerciale e imprenditoriale della città, assoggettato alle estorsioni, che rappresentano la maggiore voce delle entrate dei clan peloritani. Ne risulta sottoposta la stragrande maggioranza dei commercianti, esercenti e imprenditori messinesi: da Franchina, titolare del noto negozio di elettrodomestici di Piazza Cairoli, a Teo Aversa, titolare dello storico ristorante di Ganzirri (oggi chiuso, perché strozzato dalla crisi più che dagli strozzini messinesi) ai cosiddetti “pacchisti”, compresa la nota società “Mondial Market”. Non c’è un cantiere edile che si salvi, a cominciare da quello di San Filippo per la costruzione del nuovo campo sportivo comunale, che fece entrare circa un miliardo e mezzo di lire nelle casse della mafia messinese, gestite dal cassiere Domenico Di Dio, che era reggente di Iano Ferrara quando questi era latitante. Vi saranno assoggettati anche i venditori ambulanti, come per esempio u tedescu, il venditore di granite e brioches del viale Europa, e qualche casa di appuntamento della provincia.

In controluce, appaiono però anche le contiguità tra vittime e carnefici: in qualche caso i primi, per sottrarsi all’estorsione, non ci pensano due volte ad avviare e intrattenere rapporti societari con i malavitosi.

Nel libro di Marcello La Rosa, un poliziotto laureato in Scienze Politiche e in Giurisprudenza, dottore di ricerca in Storia delle istituzioni giuridiche e politiche, sono presenti anche ampie incursioni nella criminalistica, frutto delle recenti competenze acquisite nel Master in Criminologia.

Impossibile soffermarsi sull’intera trama del libro: l’invito è quello di leggerlo, e non superficialmente, ma con grande attenzione per ricavarne un quadro per molti versi inedito della città di Messina, per conoscerla meglio e aver consapevolezza del perché, per esempio, sia tanto più cara e tanto più povera di altri capoluoghi di provincia siciliani.

Almeno un cenno meritano, tuttavia, per gli anni presi in esame da La Rosa, i rapporti tra mafia e istituzioni. Innanzitutto, le carceri e le connivenze con alcuni agenti di custodia (Giovanni Moschella e Francesco Scaramuzzino), ma anche il ceto politico e la magistratura.

Sulle carceri italiane si parla tanto per le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i detenuti. L’affresco che offre questo libro è molto diverso. Le carceri sono la “casa del mafioso”, il luogo in cui si muove con grande padronanza: in carcere si diventa “figliocci” e si tengono le cerimonie di affiliazione; le carceri sono il luogo di accordi di pacificazione tra famiglie rivali (per esempio, la “Pace di Volterra” tra i Costa e i Cariolo, siglata nel penitenziario toscano nel giugno del 1981); in carcere si definiscono nuove strategie, si decreta la “fine” di vecchi capi e la nascita di nuovi organigrammi, e se ne dà plateale conoscenza, con gesti dall’alto valore simbolico (nel carcere-albergo di Gazzi, Mario Marchese comunica a Gaetano Costa la determinazione di rendersi autonomo facendosi spostare – lui e tutti i suoi uomini – di cella, dal reparto “cellulari” al reparto “camerotti”); in carcere si continua a esercitare lo spaccio di droga; in carcere entrano anche le armi; dalle carceri partono gli ordini dei capi per la gestione del territorio durante la loro detenzione; dal carcere partono infine le “sentenze di morte” emesse dai boss o altri provvedimenti punitivi, come l’ordine di uccidere l’agente di custodia Giovanni Terrazzino e poi l’avvocato Giuseppe Carrabba.

Ed è sempre da un luogo delle istituzioni – l’Aula del maxiprocesso del 1986 – che sarebbe partito l’ordine di giustiziare l’avv. Nino D’Uva, un eccellente penalista colpevole solo di essere un professionista integerrimo, padre e suocero di due magistrati a cui mai e poi mai avrebbe chiesto di mettersi a disposizione dei suoi clienti.

Quanto al rapporto con il ceto politico cittadino, l’indagine di La Rosa ci ricorda altre vicende forse dimenticate. Tanto è stato scritto su questo ambiguo rapporto. Lo sintetizza bene la riflessione di Paolo Borsellino: «Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo».

Sin dalle sue origini, la mafia siciliana si è presentata come l’anti-Stato, un contropotere capace di soddisfare meglio dello Stato le esigenze degli abitanti di un quartiere o di una certa comunità, di garantire la sicurezza. Marcello La Rosa riporta in proposito una frase del boss del Cep Iano Ferrara, secondo il quale, grazie al suo operato, «il quartiere è sicuro, nessuno ruba niente e le persone possono lasciare la porta di casa aperta».

Non solo, ma mafia e politica sono poteri che si alimentano di consenso popolare tanto da assecondare quella che La Rosa definisce la «attrazione fatale» tra mafia e politica. Anche a Messina, in base alle fonti cui attinge La Rosa, questa attrazione fatale ha prodotto i suoi frutti?

Noi la percezione di ciò l’abbiamo ogni volta che si svolgono delle consultazioni elettorali. Per il periodo da lui studiato, La Rosa conferma questa percezione, tant’è che afferma: «I mafiosi messinesi riuscirono [non solo a incidere sui risultati delle elezioni comunali, ma] anche a condizionare la politica nazionale ed a raccogliere tanti voti fino a consentire le nomine di assessori e di un viceministro all’importante ministero dell’Interno».

Il riferimento è all’on. Saverio D’Aquino, noto oncologo ed esponente del PLI che, già sottosegretario alla Sanità del II governo Craxi (dopo nel 1986), in seguito, dal luglio 1987 al maggio 1994, fu nominato in altri sei governi (Goria, De Mita, Andreotti, Amato e Ciampi) sottosegretario all’Interno.

Anche la magistratura del tempo non esce bene da questo affresco: accanto a PM coraggiosi ma forse poco esperti in processi di mafia, altri risultano decisamente pavidi, inerti o addirittura collusi. La Rosa ne fa i nomi, sempre sulla base delle risultanze giudiziarie.

Altro che città babba, tranquilla, altro che realtà marginale rispetto ad altre realtà del Meridione d’Italia! La mafia, nella “tranquilla” città di Messina, è ben radicata e innumerevoli sono i suoi coinvolgimenti col notabilato cittadino, tanto da ritenere che il “modello Messina”, a causa degli intrecci col mondo della politica e delle istituzioni, sia addirittura per spessore e organizzazione un gradino sopra rispetto a quanto strutturato nel territorio circostante.

La ricostruzione si ferma al 1994, l’anno dei “pentimenti di massa”. Resta il dubbio che certe verità dei pentiti siano state il frutto di decisioni prese a tavolino, per stabilire chi proteggere e chi accusare. Se ad esse si aggiungono i clamorosi errori commessi dalla magistratura nella gestione di alcuni pentiti, il dubbio sull’attendibilità delle loro dichiarazioni e testimonianze è davvero molto forte.

Si conclude con l’amarezza di queste riflessioni il bel libro di Marcello La Rosa. (Maria Antonella Cocchiara)

 

 

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