Emergenza Covid19: siamo un Paese, non un Campanile

di Pietro Saitta – In un testo assai divertente per l’inversione dei fatti e dei significati che propone, alcuni consiglieri comunali parlano di 34 messinesi che, non firmandosi, “intendono farsi pubblicità”. Gli stessi consiglieri si riferiscono a dei firmatari che, “con buona probabilità, appartengono a gruppi politici” (come se, peraltro, gli stessi che parlano non fossero appartenuti e, in fondo, non appartenessero ancora a un gruppo politico. Che l’infamia di appartenere a qualcosa sia l’infamia di loro stessi?). Altri ancora, bestemmiando, paragonano l’emergenza covid-19 allo “sterminio degli ebrei”.

Spiacente dunque di deludere loro e gli altri tifosi, devo necessariamente dire loro che quella lettera l’hanno scritta dei cittadini semplici, appartenenti a culture politiche variegate.

Infatti chi ha proposto e firmato quel documento lo ha fatto solo per lo sdegno provato dinanzi allo spettacolo di un uomo che trasforma una epidemia in un teatro, in barba al principio fondamentale per cui in una catastrofe non si sommano le voci e le gerarchie si rispettano.

Ciò che so è che nei tempi di crisi la comunicazione del rischio non ammette che a un messaggio se ne aggiunga un altro che sia contraddittorio rispetto al primo, perché rassicurante rispetto a questo oppure allarmistico. I messaggi, cioè, devono giungere al pubblico in modo univoco.

Come su una nave nella tempesta, in certe situazioni a comandare sono solo alcuni: quelli che possiedono le informazioni, le competenze per processarle e un gruppo scientifico di supporto che ne orienta le decisioni. In queste circostanze, semplicemente, ci si affida a un gruppo.

Chi ha firmato ha visto che il primo a mettere in discussione questo principio fondamentale è stato proprio Cateno De Luca. È lui e soltanto lui che dopo un lungo e ossequiante periodo di silenzio che lo aveva però relegato ai margini, ha improvvisamente fatto mostra di dismettere la fiducia verso le istituzioni nazionali e preso a diramare nuovi allarmanti messaggi.

Come un paziente che volesse insegnare al medico come fare un’operazione, Cateno De Luca ha sistematicamente contraddetto le indicazioni che venivano dal governo centrale.

Lì ove il principio era l’unità del paese dinanzi a una crisi comune, Cateno De Luca ha introdotto il principio della “eccezionalità messinese”. Come se la carenza di posti letto e la spoliazione della sanità pubblica fosse un problema di Messina e non di gran parte di questa nazione. Un male comune, che mette Messina nella stessa condizione di Catanzaro o di Potenza. Ed un male, per l’appunto, di cui si tiene conto nelle analisi dei dati e della programmazione centrale.

Per chi ha firmato il documento, Cateno De Luca ha fatto tutt’altro che difendere la città di Messina: ha creato invece una situazione di pluralismo normativo, in cui la gente ha smesso di sapere quale comportamento fosse autorizzato e quale no.

In ragione di questa ostinazione ha creato ripetutamente incidenti diplomatici con quelle istituzioni a lui sovraordinate a cui rifiutava però di obbedire. Al punto che è stato progressivamente isolato, se è vero che il Presidente Musumeci dichiara a un certo punto della crisi che, per quanto riguarda Messina, stava coordinandosi con la Prefetta Librizzi e con la Ministra Lamorgese. Ma non menziona mai il sindaco, con cui era semplicemente impossibile concordare alcunché.

Questi sono i fatti. Unicamente i fatti. A seguire c’è il piano dell’interpretazione politica: ho già detto che all’inizio della crisi De Luca si era comportato dignitosamente (tanto dignitosamente che avevo persino ripetutamente pensato di scrivergli per fargli i complimenti). In quel periodo, però, è successo pure che per la prima volta nella sua storia politica recente De Luca si era ritrovato nel cono d’ombra delle gerarchie proprie di un momento di crisi. Un tempo troppo lungo, che deve avergli dato l’impressione di stare perdendo la propria centralità (basta a riguardo dare un’occhiata alla sua pagina web, carente in quei giorni di like e condivisioni).

Ma era pure sempre il sindaco e gli giungevano comunque informazioni riservate provenienti dal livello centrale. Ha saputo per tempo, dunque, che il governo stava per dare una stretta alle misure attive (si avvicinava il secondo decreto del Presidente Conte). Ed è allora che decide di giocare d’anticipo. Lo fa alla sua maniera: allarmando, prendendo misure discutibili da un punto di vista epidemiologico, aprendo quel conflitto istituzionale di cui ho parlato più su.

Improvvisamente i logaritmi e le proiezioni statistiche che prevedono l’evoluzione del contagio e il numero di posti letto di cui si avrà bisogno in ospedale smettono di avere alcuna importanza ai fini del governo locale della crisi. A contare è unicamente ciò che il “buon senso” e “la paura” suggeriscono al sindaco di dire. Ossia che Messina non è la Lombardia, che nulla sarà possibile fare qui e tutto il resto. Senza considerare che in Italia solo la Lombardia è tale, e che la condizione del resto del paese non differisce troppo da quello di questa Messina così speciale.

De Luca usa così la crisi per ritrovare quella centralità che teme di stare perdendo. Si tratta di un timore stupido; lo stesso degli artisti che hanno paura di potere essere dimenticati. Ma il suo istinto politico gli suggerisce che può trasformare questo momento in un altro pezzo di quel capolavoro che è la comunione sentimentale con una folla che, in massima parte, vede il gioco ma non capisce le regole. Un “popolo” – diciamolo a muso duro – per buona parte a digiuno di grammatica politica. E bisognoso di rassicurazione, oltre che di conformità.

In questo quadro deprimente non restava che fare appello alle uniche figure in grado di riaffermare il principio per cui ci si salva solo se si è tutti uniti. Uniti come nazione, e non come campanili.

Agli unici in grado di affermare che la sicurezza non sta nel dire semplicemente “stiamo morendo”, ma nel mettere insieme quei passi utili a salvarsi che non devono necessariamente essere strettissimi. E che se per caso lo dovranno diventare, che lo diventino per tutti, nello stesso tempo e dentro una strategia comune. Ossia nazionale.

Firmare era un dovere. E che le firme di chi sosterrà siano 34.000 anziché 34 non ci tange. Se è alla coscienza che Cateno fa appello, lo stesso è valido dall’altra parte.

Orgoglioso di chi ha firmato.

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