L’integrazione mediterranea e il nostro assalto al cielo

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di Giuseppe Campione – Nuove gerarchie si stanno intrecciando inesorabili, premiando ora le città medie ora le rinnovate strutture metropolitane tradizionali, capaci di animare lo sviluppo del potenziale produttivo delle due sponde non sono ancora apparse, il Mediterraneo appare ancora come uno spazio frammentato e periferico senza i luoghi capaci di pensarne una rinnovata funzione.

Su che basi? Il mondo comunque non può essere considerato come un sistema territoriale articolato in complessi regionali. Ognuno di questi manifesta a sua volta un certo grado di differenziazione interna derivante da vincoli storico-ambientali, la cui azione si sviluppa nel lungo periodo. Una tipologia quella del sud mediterraneo, soprattutto dopo (ormai antiche) primavere cariche di decostruzione, ma ancora aperte, spesso confuse e con tentazioni termidoriane, e di primavere solo dolorosamente annunciate, tutte collocate nell’intersezione di uno spazio di relazioni verticali, orizzontali, complesse.  

Un territorio da pensarsi al plurale, perciò.

E’ nelle keywords di Gottmann sulla teoria geografica che troviamo un definirsi dell’iconografia, l’insieme dei simboli cioè in cui crede la gente, anche in modo acritico, sedimentato nel tempo, come un qualcosa che può determinare l’organizzazione degli spazi. Un elemento perciò discriminante o cloisonant, proprio perché esprime, in cospicua misura, “la caratteristica dei gruppi sociali a trovare identità culturale, religiosa, nazionale attraverso la costruzione di un set definito a scala locale”.

Ed è in ragione di questi fattori “à la fois matériels et spirituels”, diciamo culturali, che si determina le cloisonnement politique du monde, e l’iconographie “permette di selezionare tra i fattori culturali quelli che condizionano i fenomeni di cloisonnement, i regionalismi”, creando altresì “la chiave del dialogo tra geografia culturale e geografia politica”. Da questo dialogo ne verranno ulteriormente evidenziate appartenenze, identità radicate, idee ereditate, miti, linguaggi, simboli, icone.

Se gli standard comunicativi si fanno globali e implicanti una gamma vastissima di attività (fino alla omologazione in poltiglie culturali sincretiste scambiate per tollerante integrazione), resta pur vero che nessun attore economico è competitivo se con lui non compete il suo territorio.

Più direttamente soggetto al controllo diretto dei suoi membri, dotato della forza delle strutture spontanee (cioè rodate da infinite azioni di correzione ed aggiustamento e condivise dai suoi attori), il territorio consolidato (giustamente inteso come la forma tipica della regione geografica come frutto possibile e raro) compete e viene confermato se non addirittura consolidato dai processi di omologazione dei mercati. La coincidenza di economia, cultura e società nello stesso territorio è uno strumento formidabile di competitività. E le grandi aree limitrofe trovano ravvivati interessi di integrazione, di tessitura di trame territoriali.

E il Mediterraneo appare ancora come uno spazio frammentato e periferico senza capacità di pensarne una rinnovata funzione. Non ostante il mondo contemporaneo sia considerato come sistema territoriale articolato in complessi regionali. Ognuno di questi complessi manifesta a sua volta un certo grado di differenziazione interna derivante da vincoli storico-ambientali, la cui azione si sviluppa nel lungo periodo.

E se torniamo alla Sicilia registreremo ancora quasi inconsapevole mediterraneità. Ci siamo allontanati dai possibili <scambiatori> (come non ricordare invece “La fionda sicula” di Urbani e Doglio, e mia introduzione -Il Mulino,1972- ) proprio perché è come se ci fossimo fermati solo su un carrefour di grandi dicotomie: nord-sud, sviluppo-sottosviluppo, occidente-oriente, cristianesimo-islam etc.

I temi finivano tutti in semplificazioni addirittura banali: ridefinire, ad esempio il Mediterraneo come antica regione comunque lontana, oppure solo frontiera, quella dell’hic sunt leones, appunto.

Ma come non prendere atto dei milioni di sfollati che cercano rifugio ed esprimono bisogno di sopravvivenza dopo carestie, epidemie, guerre, permanenti conflitti locali, persecuzioni, mutilazioni, violenze e massacri, e rivoluzioni magari all’inizio cariche di primavera ma i cui esiti si sono aggrovigliati nelle tenebre di disperati inverni?

E allora come non pensare che, per la logica dei vasi comunicanti, parte della popolazione mondiale, un esodo epocale, si muove attraverso la Sicilia.

La Sicilia del resto, e riprendo il Gattopardo, era stata America dell’antichità.

Poi nell’arco di un secolo si sono alternate almeno quattro generazioni, una valanga, di nostri migranti che hanno “assaltato il cielo”, in un groviglio inestricabile di famiglie smembrate pesantemente, dolorosamente, che si portarono addosso la colpa della loro diversità ( De Clementi, Donzelli 2014). E allora? Per carità erano partiti prima di noi. Si, ma poi quella terra straniera fu Patria, ci ricordava la Spinelli.

I continenti, a turno, hanno testimoniato di queste transumanze di popoli, di culture: dopo tragedie e olocausti.

(Foto tratta da la mostra FLAGS – MalMediterraneo dell’artista pantesco Nino Raso)

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