Nella cucina del Gattopardo, molto fumo e poco arrosto

di Palmira Mancuso – Diciamolo subito. Nella cucina del Gattopardo le nostre aspettative si sono smontate come il più classico dei soufflè. Non è certo colpa degli ingredienti: gli attori sono stati bravissimi. Ma affidare alla certificata bravura di due punte di diamante del teatro italiano come Giampiero Ingrassia e Tosca D’Aquino la riuscita di uno spettacolo debole su molti altri fronti, non ha risparmiato critiche.

Se l’idea di far entrare lo spettatore dentro le grandi cucine del principe di Salina in occasione del famoso “ballo” reso iconico da Burt Lancaster e Claudia Cardinale, ha suscitato grande attesa, lo svolgersi dello spettacolo ha via via sperperato quel grande riferimento ad una stagione siciliana di forti emozioni e travolgimenti.

E’ mancata infatti l’azione in un testo che è parso nella sua totalità, quasi “una bozza”: un appunto di come avrebbe potuto essere. E lo striminzito e ripetitivo secondo atto, nonostante la bellezza estetica del rimando alla Cona di Santa Rosalia, quasi a sublimare il martirio d’amore della bella Teresa, ha sancito la silenziosa preghiera del pubblico che lo spettacolo finisse. Anche perché nella sostanza era finito da un pezzo.

Sempre che non vogliamo accontentarci di ridere alle battute volutamente oscene (per nulla “pantagrueliche”) e certamente non femministe che irrompono in una cucina molto immaginaria, dobbiamo sottolineare come lo spettacolo abbia portato in scena tutti i possibili stereotipi della donna del sud schiava dell’amore o del sesso, con Teresa che deve espiare tutta la vita la colpa del suo amore per il Principe e il suo essere stata prostituta, e la donna della servitù che può solo pretendere sesso, con espliciti riferimenti ad assaggi di ricotta ed estasi di sante martirizzate con spade e spadini. Insomma nulla di più lontano da quella prosa dei Vicerè di Federico De Roberto, che ci auguravamo di sentir rievocare, attraverso il riferimento alla presenza del monzu, una sorta di cuoco a tre stelle dell’epoca, di cui persino i monasteri più potenti, non facevano a meno.

I personaggi maschili poi, fatte sempre salve le indiscutibili capacità attoriali, erano davvero lontani dal creare una qualche azione che potesse far scattare nel pubblico quell’attesa necessaria a voler sapere come andrà a finire: il “pretendente” di Teresa è chiaro che sarà rifiutato dal primo minuto della scena, il figlio non abbiamo ancora capito quando e come ha scoperto di essere il figlio illegittimo del principe, il servo di cucina è solo tratteggiato in un gioco di sottintesi con la sua pari, il cuoco Monsù Gaston che rivendica il proprio ruolo nel rapporto con il Principe, quasi facendoci credere che la sua gelosia nei confronti di Teresa sia vera passione, un amore omosessuale che aleggia nel fondo di un testo tutto ancora da scrivere.

Se val la pena andarlo a vedere? Certamente. Anche per confutare alcune impressioni, magari di chi ha la “bocca buona” e dalla cucina del Gattopardo si aspettava un tripudio di quella sicilianità che solo in alcune felici intuizioni abbiamo colto. In quel rapporto tra eros e cibo che le nostre nonne, seppur devote e vestite di nero, conoscevano bene: in cucina esprimevano con libertà ogni sentimento nascosto. Un filone narrativo che ci porta nel sud del mondo, in quella narrazione magica dove amore e trasgressione regnano incontrastati.

 

 

 

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