MAFIA: DAL PRIMO DICEMBRE AD OGGI TRE OMICIDI NELL’ HINTERLAND BARCELLONESE

 

Il corpo sfigurato di Nicola di Stefano, 23enne originario di Tortorici ma residente nel comune di Montalbano Elicona, è stato ritrovato ieri sera nelle campagne di Braìdi, frazione agricola della vicina Montalbano Elicona. Ad ucciderlo sono stati tre colpi di fucile sparati a distanza ravvicinata. A fare la tragica scoperta, dopo ore di preoccupata ricerca, è stato il padre che nella prima serata di ieri, 4 febbraio, non vedendo rincasare il figlio aveva iniziato a preoccuparsi. Le ricerche non hanno portato da subito i familiari nel fondo di proprietà; essi inizialmente hanno setacciato le strade limitrofe pensando forse ad un incidente o a qualcosa di simile. Soltanto quando hanno visto il fuoristrada con cui il loro parente si era allontanato fermo a pochi passi dall’ingresso dell’appezzamento, inquieti sono entrati facendo la tragica scoperta.

Dalle prime analisi l’omicidio sarebbe avvenuto nel pomeriggio, poco dopo l’uscita di casa del ragazzo che aveva annunciato a familiari ed amici l‘intenzione di andare ad assistere il bestiame custodito proprio in quella campagna. Il luogo è molto isolato, fuori dalla Statale, così adesso gli inquirenti hanno poco da sperare in possibili testimoni oculari: dalle prime domande nel circondario ognuno dice di aver visto e sentito nulla. I punti oscuri sono tanti mentre una delle poche inquietanti certezze è che Nicola di Stefano aveva la stessa età di Giovanni Isgrò, la prima vittima di una triste catena di omicidi giunta oramai al terzo anello. Coincidenza? Al momento non si esclude nulla.

Se infatti non si può avere certezza circa la matrice mafiosa di questo terzo assassinio, le forze dell’ordine sembrano poco convinte dalla possibilità di una vendetta tra pastori: la fredda brutalità con la quale i tre colpi, di cui uno in testa, sono stati sparati fanno pensare piuttosto ad un tacito messaggio di stampo mafioso. Quest’ultimo particolare preoccupa chi ha preso in mano le indagini: il Capitano dei Carabinieri Filippo Tancon Lutteri ed il Sostituto Procuratore di Barcellona Giorgio Nicola.

Se i primi due colpi sembrano essere stati esplosi ad una distanza di 50 m l’ultimo, quello che ha colpito il ragazzo al viso non lasciandogli più speranze e sfregiandolo, sarebbe stato sparato a pochi centimetri come se l’assassino avesse voluto farsi guardare mentre uccideva. Le forze dell’ordine mantengono il più stretto riserbo, indagando in prima istanza sul passato familiare dei Di Stefano. Pare infatti che la famiglia del ragazzo abbia intrattenuto stretti rapporti con Tindaro Calabrese, il capo scissionista del clan dei Mazzarroti che dal 2008 si trova al 41 bis. Calabrese fu, come molti ricordano, uno dei boss nati in seno alla sanguinosissima guerra di mafia che si scatenò nel Barcellonese venti anni fa. Andiamo brevemente a ripercorrere la storia del clan e dell’ascesa di Calabrese che è, o meglio era, il padrino di cresima della vittima.

La cellula mafiosa dei “Mazzarroti” vide la luce nel 1986 a Mazzarrà Sant’Andrea per volontà del boss di Vigliatore, Pino Chiofalo, chiamato “U Sceccu”. Si era prossimi alla “guerra” con i “Barcellonesi”, clan già esistente e molto potente nell’interland grazie ai propri contatti con i “Palermitani” ed i “Catanesi”.  La mafia barcellonese pare agisse infatti da intermediario tra le altre due importanti cosche siciliane che di fatto si spartivano il potere dell’isola. Questo ruolo di mediatori portava ai “Barcellonesi” molto potere e prestigio, tanto che Barcellona era diventata una sorta di “Corleone” del Messinese mentre Messina stessa veniva indicata (per sua fortuna) come la “città babba”.

Pino Chiofalo in una riunione segreta tenutasi nel 1986 nei pressi del ponte Cicero, all’interno della masseria di proprietà di Giuseppe Trifirò ( noto come“Carabedda”) costituì il “Corpo di società attiva”, una nuova organizzazione la cui  violenza si sarebbe potuta indovinare già dal rituale di ingresso costituito da un “mix simbolico” tra la Camorra di Raffaele Cutolo e la calabrese ‘Ndrangheta; quest’ultima voleva fare affari in Sicilia dove, però, regnava Cosa Nostra. Sul territorio furono, di conseguenza, presto create delle ‘ndrine che non sfuggirono ai Barcellonesi la cui “fedeltà” andava, per l’appunto, a Cosa Nostra. Con simili presupposti lo scontro era inevitabile.

 

La più importante ‘ndrina fu quella dei “Mazzarroti” affidata proprio a “Carabedda” che su Mazzarrà controllava con i suoi armenti i pascoli. Sino alla morte di Trifirò avvenuta il 30 agosto del 1991 in seguito alla guerra che per l‘appunto si scatenò tra i “Barcellonesi” ed i “Chiofalani”, i nemici della Cosa Nostra tirrenica sembrarono essere “quelli di Terme Vigliatore”. Invece di fatto non era così: importante era stata nella guerra l’azione dei Mazzarroti cosicché il controllo dei “Chiofalani” venne assunto, all’indomani della morte di Chiofalo, proprio da Carmelo Bisognano, il nuovo capo dei Mazzarroti. La rivalità tra i due clan, Barcellonesi e Mazzarroti, era appena agli inizi. In seguito alle indagini Bisognano venne però presto arrestato aumentando a malincuore il potere di un proprio ex alleato, il capo dell’ala secessionista dei Mazzarroti Tindaro Calabrese che avrebbe retto la cosca sino all’aprile del 2008 quando, arrestato a sua volta, venne giudicato e condannato al 41 bis.

 

E, come dicevamo, Tindaro Calabrese è il padrino di cresima di questa nuova vittima conosciuta per l’appunto in certi ambienti come “il figlioccio del boss”. Non essendovi al momento indizi circa una condotta mafiosa del giovane Di Stefano che potrebbe semplicemente essere uno dei tanti ragazzi cresciuti in un territorio difficile e controllato dalle mafie, è l’attività del padre Vincenzo ad essere al centro delle attenzioni degli inquirenti perché pare sia stato, in passato, un “sodale” (quindi non un semplice amico) di Calabrese. Di Stefano è difatti menzionato negli incartamenti dell’indagine “Vivaio” perché indicato come il “Cogimo” che stringeva stretti rapporti con il clan mazzarroto. Se gli inquirenti dovessero aver ragione, questo terzo agguato potrebbe essere indizio della “guerra” di successione ipotizzata lo scorso mese da Sonia Alfano; quest’ultima nel corso degli incontri di commemorazione del padre, parlando del delitto Perdichizzi si era augurata che gli amici di quest’ultimo non decidessero di dare una risposta all’ “altra parte”. Dato che Perdichizzi era stato indicato come uomo di fiducia (e possibile successore?) di Barresi, il boss arrestato proprio pochi giorni fa dopo una lunga latitanza, “l’altra parte” potrebbe forse essere il clan concorrente: i “mazzarroti”? Con i recenti arresti si è forse creato un vuoto di potere che riaccende una rivalità sopita venti anni fa per effetto delle indagini e di un “assestamento” voluto da entrambe le parti allora braccate dalle forze dell‘ordine? Al momento non si esclude nulla, neanche, come detto, la semplice vendetta tra pastori. Tante le domande ed una sola la certezza: una giovane vittima conosciuta da molti coetanei – adesso sconvolti e confusi – non come “il figlioccio del boss” ma semplicemente come Nicola, il ragazzo appassionato di cavalli che partecipava sempre alle sfilate in costume del paese amato dallo “Stupor Mundi” Federico II che vi costruì a suo tempo un suggestivo castello. Proprio i giovani sembrano essere presi di mira in questo misterioso circolo di agguati mentre il comprensorio Barcellonese ripiomba nell’incertezza e nella rabbia: nessuno vuole dover (ri)assistere ad una nuova guerra di mafia. 

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