RISTORANTI ITALIANI ALL’ESTERO: ISTRUZIONI PER L’USO

Il momento di pianificare le vacanze è decisamente arrivato e per chi sia convinto di acquistare un titolo di viaggio verso l’estero, probabilmente non è un cattivo consiglio quello di inserire anche il digestivo nella lista delle cose da non dimenticare.

Nonostante il numero degli impavidi sia un crescendo, tendenzialmente il turista italiano pretende di garantirsi pasti che rispettino i nostri standard, se non proprio in sapore almeno in qualità ed equilibrio di componenti. Difatti il nostro nuovo mondo globalizzato, che ci consente di mangiare il sushi seduti su un prato inglese nel centro di Londra, non ci impedisce certo di fare altrettanto con pietanze nostrane. A che prezzo? Sulla costa meridionale dell’Inghilterra sorge la cittadina di Brighton, un piccolo gioiello che in quanto a struttura e affaccio sul mare ricorderebbe, seppure alla lontana, la nostra Messina. Questo angolo di Britannia costituisce un esempio calzante di quello che accade in misura di certo maggiore nelle grandi metropoli del mondo. Se in un contesto come quello romano prendere i mezzi pubblici basta a rendersi conto di quanto culturalmente composita sia la popolazione, Brighton risulta forse più discreta, ma la sua vocazione multiculturale diventa lampante nel momento in cui ci si confronti con il campo della ristorazione.

 

Dalla mappatura delle attività commerciali di questo tipo viene fuori una splendida coperta in patchwork, un vero e proprio mosaico di stili culinari che comprende pietanze giapponesi, cinesi, messicane, thailandesi, indiane, brasiliane, libanesi, coreane, francesi e marocchine. Nella compostezza del puro spirito inglese si inserisce anche il genio di matrice italiana che, usando una metafora solo apparente, restituisce sale alla cultura autoctona. Il fish and chips sarà pure un vessillo, ma accanto alla fama del made all’italiana l’ipercalorica frittura, ahi noi scipita, e’ destinata a riservarsi un misero secondo posto persino presso gli abitanti originari. Così, tra noodles, curry e i noti McDonald’s e KFC, sparsi sul territorio per un numero complessivo indecifrabile si rintracciano locali che sfoggiano sull’insegna la dicitura “ristorante italiano”, salvo poi venire a capo della questione scoprendo che il Boss è un tale Mr. Cooper e che lo chef porta il nome di Rajesh Ramayan Koothrappali.

 

Dove sono gli italiani?

L’origine della gran parte di questi ristoranti soccombe miseramente sotto il peso dell’espansione di un business che li ha resi solo punti vendita di intere catene in franchising. Sono davvero rare le attività tutt’ora a conduzione familiare che danno la possibilità di riuscire a visualizzare la bella penisola italica solo assaporandone i piatti tipici. La qualità media dei cibi basta a soddisfare i palati estranei alla vera natura del prodotto italiano, ma non è sufficiente ad ingannare chi con quei sapori ci convive. Così, mentre in ogni ristorante appartenente alla medesima catena a un piatto con lo stesso nome corrisponderà un’apparenza e un sapore sempre identico, sia esso servito a Brighton come a New York, un italiano tenderà a convincersi che in quel dato paese si mangia male. Dell’idea iniziale di emigrare per investire nell’avvio di un’attività di questo tipo in un paese che tutto sommato sembra sempre meno problematico dell’Italia, resta al più un’insegna luminosa che spesso si limita a raccontare la storia di pionieri coraggiosi alla fine spodestati. (LAURA MANTI)

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