Omicidio di Beppe Alfano, il collaboratore Carmelo D’amico: “Conosco il mandante e gli esecutori”. Per il delitto sono in carcere da 10 anni il boss Gullotti e Merlino. Lo spettro dell’autogol incombe sulla famiglia del giornalista

di Michele Schinella – Lei sa chi ha ucciso il giornalista Beppe Alfano? “Si. So chi è il mandante e chi sono gli esecutori. Ma non posso dirle i nomi. Ci sono indagini in corso”.

Il collaboratore di giustizia Carmelo D’amico, rispondendo alle domande di un difensore nel corso del processo “Trattativa” in svolgimento a Palermo, svela che c’è una nuova verità sul delitto del giornalista ucciso a Barcellona pozzo di Gotto l’8 gennaio del 1993.

Una verità – a cui sta cercando i riscontri la Procura di Messina – diversa, secondo quanto ha raccontato il collaboratore di giustizia, da quella scolpita in una sentenza passata in giudicato da quasi dieci anni.

Per  l’omicidio del padre di Sonia Alfano, ex presidente della Commissione antimafia del Parlamento europeo, sono in carcere, condannati a 30 anni, il boss Pippo Gullotti, ritenuto il mandante, e Nino Merlino, considerato l’esecutore materiale.

VERITA’ CONTESTATA

Che la verità accertata al termine di rocamboleschi processi durati 12 anni e fondata su dichiarazioni (rese durante le indagini mai confermate in contraddittorio e poi inutilmente ritrattate) di un collaboratore, Maurizio Bonaceto, non fosse la vera verità o non fosse tutta la verità è un dato che il legale di Sonia Alfano, Fabio Repici, sostiene da tempo.

Nonostante mandante ed esecutore fossero stati già individuati e condannati, il legale in atti giudiziari ha sostenuto che il delitto è nato nell’ambito della presunta Trattativa Stato-Mafia, oggetto del processo in cui ha fatto irruzione oggi 15 maggio 2015 la testimonianza di D’amico.

Beppe Alfano – secondo questa ricostruzione – è morto perché aveva scoperto che il boss Nitto Santapaola si trovava a Barcellona, dov’era protetto dagli esponenti del clan mafioso barcellonese e dalle Istituzioni. E in questa logica le indagini sulla sua morte sono state depistate.

Ma le dichiarazioni di D’amico hanno smentito le tesi dell’avvocato Repici. Santapaola infatti secondo il boss è stato tenuto si a Barcellona, o meglio a Terme Vigliatore, ma con il delitto Alfano non c’entra nulla. Mandante ed esecutore vanno individuati in un altro contesto.

MEMORIALI GALEOTTI

Colui che aveva fatto nascere questa tesi e aveva gettato dubbi sulla verità processuale del delitto del giornalista Alfano era stato Olindo Canali. Il magistrato titolare delle indagini sul delitto, grazie alla collaborazione di Bonaceto aveva chiesto ed ottenuto la condanna di Gullotti e Merlino.

E’ stato infatti Canali a scrivere nel 2006 due memoriali.

Uno di tre paginette, detto Il “Testamento”. Affidato al giornalista Leonardo Orlando, con cui aveva un rapporto di fiducia, gettava forti dubbi sulla verità processuale dell’omicidio Alfano. Il “Testamento” doveva essere pubblicato solo in caso di arresto del magistrato brianzolo. Invece, cominciò a girare per gli studi dei legali della città del Longano qualche giorno dopo. “Pippo Gullotti: assolto da omicidi che aveva commesso o di cui era il mandante, finirà per scontare una pena per uno da cui è probabilmente estraneo”, ha scritto Canali ne “Il Testamento”.

“Ho capito che Bonaceto non sapesse molto e si sia voluto accreditare. Specie dopo la ritrattazione perchè ha allegato dei fogli con schemi scritti da Piero Campagna e Sebastiano Zingales, gli appuntati dei carabinieri. Sono stati loro a comunicarmi che cʼera una persona disposta a collaborare”, ha spiegato Canali in un processo.

L’altro, molto più lungo, inviato, invece, al legale Fabio Repici, con cui Canali intratteneva all’epoca buoni rapporti, dava conto del fatto che Alfano qualche tempo prima di morire gli aveva confidato che “Santapaola era in zona”.

I due memoriali sono stati portati a conoscenza dell’autorità giudiziaria agli inizi del 2009: tre anni dopo.

Successivamente, Canali,  sentito in pubblici processi ha confermato: “Intorno al 20 dicembre 1992, Alfano mi disse: “Quando ritorna dalle vacanze natalizie, le saprò dare notizie più precise. Le dirò dove si trova Santapaola”.  I due non si videro più.

QUELLA SERA….

La sera dell’8 gennaio 1993, Alfano fu ammazzato a piazza Marconi. Qualche minuto prima aveva accompagnato la moglie a casa. Scorgendo qualcosa in lontananza le disse: “Chiuditi in casa. Tra un po’ torno”. Alfano salì  sull’auto: fu trovato a bordo della stessa poco tempo dopo. Esanime. Un colpo di pistola calibro 22, sparato a bruciapelo attraverso il finestrino abbassato da qualcuno con cui si era fermato a colloquiare, aveva fermato la sua vita.

Da cosa e da chi si era fatto attirare? Carmelo D’amico lo ha raccontato agli inquirenti e nelle prossime settimane 22 anni dopo la nuova verità emergerà dalle tenebre di un processo concluso con una condanna senza movente.

LATITANZA NON PROTETTA

carmelo_damicoD’amico (nella foto) ha spiegato che – contrariamente a quanto sostiene il legale Repici – non c’entra nulla un altro episodio accaduto in quei mesi a Terme Vigliatore: l’inseguimento con sparatoria da parte di alcuni uomini del Ros (tra cui il Capitano De Caprio “Ultimo” e Giuseppe De Donno), di Fortunato Imbesi. Il 6 aprile 1993, il figlio dell’imprenditore Salvatore Mario, uscendo a bordo della jeep dalla villa di famiglia di Marchesana, a pochi passi dalla villetta dove era nascosto Santapaola, non si era fermato all’alt dei carabinieri: uno di questi, il brigadiere Mangano, lo aveva scambiato per il latitante Pietro Aglieri. L’inseguimento, nel corso del quale De Caprio aprì il fuoco, si concluse solo per caso con Imbesi incolume.

Secondo la Procura di Palermo, che ha fatto propria la tesi di Fabio Repici, l’inseguimento fu una messiscena dei Ros per avvisare Nitto Santapaola che era stato individuato e garantirgli la libertà. Il giorno prima da Barcellona il comandante dei Ros di Messina, Giuseppe Scibilia, aveva avvertito il comandante Mario Mori di un’ intercettazione all’interno di una pescheria, di proprietà di un mafioso, da cui risultava la presenza di Santapaola in città.

Carmelo D’amico sul punto ha però dichiarato che parlò della vicenda con il capo mafia Sam Di Salvo che gli disse che “era una cavolata” e che la stessa vicenda non aveva nulla a che fare con la latitanza di Nitto Santapaola. (www.micheleschinella.it)

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