“Orfeo ed Euridice” di César Brie, “stranizza d’amuri” e d’eutanasia

Orfeo intraprende il cammino negli Inferi per recuperare sua moglie, Euridice, uccisa dal morso di un serpente. È il suo canto che ammalia gli dèi, che arrivano a consentire ad Orfeo di far ritornare la sua amata nel mondo dei vivi, a patto di non voltarsi mai a guardarla. È Orfeo che, alla luce del sole, si lascia ammaliare dalla bellezza di Euridice, che, così, svanisce per sempre, ringhiottita dalle oscurità.

Il viaggio d’amore mitico è l’ispirazione del racconto delle vite di Giulia, interpretata da Giulia Viana, e di Giacomo, interpretato da Giacomo Ferraù, nello spettacolo Orfeo ed Euridice, diretto da César Brie, andato in scena sabato 23 e domenica 24 maggio presso la Sala Laudamo per il cartellone “Laudamo in Città”. La storia di Giulia e Giacomo comincia in Sicilia nel ’93. Da quel momento, lo spazio e il tempo si dilatano in un lungo canto che descrive il loro amore, una “stranizza d’amuri”, riprendendo il brano di Battiato con cui Giacomo conquista Giulia. Così il canto diventa incanto di una storia che procede nella sua normalità: passione, sentimento, rabbia, noia, dolore scandiscono i momenti necessari e prevedibili che qualsiasi coppia attraversa. L’apparente normalità che vivono Giulia e Giacomo viene messa in discussione completamente quando è la stessa Giulia, dopo la tragica vicenda di un suo amico rimasto in stato vegetativo a seguito di un incidente stradale, a rimanere coinvolta nello schianto della sua auto contro un palo, nello schianto che le provocherà la sua (non)fine, e la condurrà nel regno dei non-morti, dentro la stanza di terapia intensiva, viva e non-viva. “Stabilizzarsi” è il fine ultimo, i danni provocati sul corpo sono così gravi che l’unica soluzione è tenerla in vita collegata a delle macchine. Attraverso i dubbi, le ansie, la rabbia, l’amore di Giacomo, prende forma la questione sull’eutanasia e su come capire quando è possibile parlare di buona e giusta vita. Dolore, sollievo, speranze sono i sentimenti che oscillano nella sua anima, dilaniata anno dopo anno nel vedere il corpo di Giulia incapace di parlare.

Stato vegetativo incoscio: stato che Giacomo non può sopportare, accusando i medici di aver uccisa sua moglie per due volte, impedendole di morire e lasciandola in attesa di nulla. Non è solo un problema di coscienza, né di coraggio, ma di diritto, un diritto gridato perfino nei tribunali, citando in giudizio la questione sulla scelta di interrompere le cure. Dopo nove sentenze arriva il responso: “il diritto alla salute, come ogni libertà, implica anche il diritto di perderla”. Giacomo /Orfeo aveva cercato di trattenere Giulia/Euridice alla vita, ma è stata la sua stessa incapacità di vivere a restituirla alla morte. Scorrono veloci e in maniera frammentaria le foto, che raccontano le tappe del loro amore, scorrono nel tentativo di ricostruire tasselli di felicità, che, però, svanisce quando non c’è più nessuno in vita in grado di ricordarla.

Nella morte di Giulia c’è il dolore di Giacomo che riesce solo a chiedere insistentemente al pubblico: “che ne sapete di Euridice? Di me e del nostro amore e delle nostre promesse?”. Così, con il cuore straziato, Giacomo/Orfeo divento afono, incapace di parlare e gridare, mentre Giulia/Euridice si incammina sola e nuda negli Inferi. Nel suo “addio ai vivi” non sente più il tempo, né l’attesa, né la speranza; vestita di bianco va incontro verso una nuova vita.

È l’amore quella lunga via che non si interrompe e che diventa quel ponte invisibile che lascerà per sempre legate due persone. La storia, ispirata non solo al mito greco, ma soprattutto al caso Englaro, è raccontata sul palcoscenico in maniera commovente, sensibile, razionale. Nell’intervallo che si gioca tra il chiedersi a vicenda “tu cosa faresti al suo posto?”, la risposta è inequivocabilmente incerta, perché, è vero, che ne sappiamo noi?

(Clarissa Comunale)

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