Laudamo in Città/Vento da Sud-Est di Campolo, ispirato a Pasolini: quando l’arte invita ad aprire la porta dell’anima

Io non vi apro. Io non ti apro. È inutile che bussi alla mia porta.

Ditemi dove mi ha portato questo viaggio, un viaggio di cui probabilmente è difficile tracciare il percorso ed individuare le tappe salienti. Questo viaggio è Vento da Sud-Est, debuttato ieri sera, che ha inaugurato la stagione di “Laudamo in Città” 2015/16, con la regia di Angelo Campolo, per una delle migliori produzioni DAF – Teatro dell’Esatta Fantasia di Giuseppe Ministeri.

Battono i piedi, dal palco senti addirittura il loro odore, i loro sguardi, penetranti, parlano la lingua dell’uomo, quell’uomo che noi siamo e che dimentichiamo quotidianamente di essere. Dicono i loro nomi, ognuno di loro è “condannato a morire”. Chi comprende la loro disperazione? Il loro viaggio? La loro sofferenza? Il loro deserto? Noi occidentali no. Sono quattro cugini (Gotta Juan, Dembele Ousmane, Dawara Moussa Yaya, Camara Mohammud), vengono dall’Africa e si muovono sul palco con una disinvoltura disarmante. Ospiti del centro “Ahmed”, accompagnati da Clelia Marano, con la collaborazione di Alessandro Russo, sono tra i protagonisti dello spettacolo liberamente tratto da Teorema di Pier Paolo Pasolini. La loro lingua è in-traducibile, è l’emblema dell’in-compreso, di ciò che ostinatamente, per esotismo e fascino, tendiamo falsamente di voler conoscere. Nessun resto, nessuna perdita nelle parole francesi, africane, italiane che si mischiano insieme: gesti, sguardi, corpo, tono di voce traforano l’anima, stordiscono le orecchie, spalancano gli occhi. Il loro viaggio non è stato dettato dalla voglia di andare a visitare uno dei posti più belli del mondo, scattare fotografie, sperperare soldi in souvenir o in alberghi di lusso, ma solo la sopravvivenza li ha spinti a cavalcare le onde, a trascinarli sulle coste, sfiorando la morte.

“Ti odio, ti amo, ti leggo Pier Paolo Pasolini”. 40 anni fa la sua morte, oggi il vilipendio delle sue parole, lo schiaffo e la beffa di chi lo esalta, di chi lo osanna senza conoscerlo, di chi non lo legge. Basterebbe il silenzio necessario per mettersi in ascolto di quello che Pasolini “profetizzava” e che oggi, direttamente ed immediatamente, sperimentiamo: l’indifferenza.

Bussano da giorni e la felice famiglia Banks (la stessa del film Disney Mary Poppins), un quadretto da “mulino bianco”, palesemente falso e plastificato, non osa compiere uno dei gesti più facili, ovvero aprire la porta. Nessuno sguardo tra di loro, né intesa, né ascolto. Meccanicamente vivono una vita apparentemente tranquilla e serena. Sicuri del loro benessere e della loro integrità di comportamento, non nutrono alcuna considerazione, né interesse per ciò che può scatenarsi fuori dal loro nido. I colpi alla porta sono insistenti, fastidiosi, ripetitivi. Paura, indifferenza, odio, disprezzo, disgusto, incredulità sono i sentimenti che giustificano un atteggiamento del genere. Cos’è la famiglia? Un agglomerato di persone che giocano a fare il servo-padrone? Autorità? Rispetto? Educazione? In che termini in una famiglia si imparano e si impartiscono regole? Pietro (Giuliano Romeo) e Odetta (Claudia Laganà), 18 e 16 anni, figli di Winifred (Patrizia Ajello) e George (Luca D’Arrigo), vivono la gioventù dei nostri anni: la ribellione, il grido di urlare la propria identità, sessualità, direzione sociale e religiosa, un grido che diventa un bisbiglio, quasi afono, quello espresso nei post su Facebook, Twitter, Instagram, YouTube, mezzi di comunicazione potentissimi, ma figli dell’omologazione, della disumanizzazione, della perdita dell’identità stessa. “Meglio fare schifo che rimanere inosservati”, meglio archiviare i pensieri, catalogare le scelte, che non sono più proprie, ma copie di copie.

Sui social, invece, i grandi giocano a fare i politici di turno. George si difende dalle accuse che gli sono state rivolte per un post su Facebook contro l’immigrazione in Italia. Si difende da italiano medio, condannando la speculazione, l’abbandono delle istituzioni dei disoccupati italiani, guardandosi bene, però, dal rientrare tra le fila dei razzisti, ma inneggiando al bombardamento dei barconi.

Opinioni da Radical chic o fondamentaliste, come quelle che emergono nell’intervista a Winfred sul ruolo ambiguo della Chiesa e scomodo di Papa Francesco, lo spettacolo offre non solo più punti di vista, ma anche un occhio aperto e critico sulla realtà, che Pasolini simboleggiava con il deserto, l’aridità e miseria della vita, che però pulsa ancora come mostra il personaggio interpretato da Glory Aigbedion nei panni della dolce e sorridente governante Emilia. I cronisti sul palco (Antonio Vitarelli e Michele Falica) fanno entrare e uscire Pier Paolo Pasolini dalla scena, che appare e scompare attraverso parole, citazioni, interventi, gesti. Non solo Teorema, di cui non è stato trattato l’incontro sessuale che i componenti della famiglia nel romanzo hanno avuto con l’aitante ospite, ma anche Comizi d’amore, La ricotta, Il vangelo secondo Matteo, sono certamente tra i più famosi ed importanti riferimenti che non vengono tralasciati nello spettacolo di Campolo.

Aprendo la porta, una luce accecante che si fa più fioca trasforma un gesto consueto in un atto sacrale, catartico, un atto in cui si ha avuto il coraggio di aprire la propria anima, il proprio corpo, senza pregiudizi e retorica, con semplicità, preservando la libertà che ognuno di noi ha e deve avere nel compiere le scelte più importanti.

In questi giorni di “stato di calamità” messinese, a quale porta dobbiamo bussare? A chi aprirla? Pasolini terminava Teorema scrivendo: “Sono pieno di una domanda a cui non so rispondere”. Nessuna risposta. Nella tasca di ognuno di noi abbiamo la chiave per aprire quella porta.

Vento da Sud-Est sarà ancora in scena il 7 novembre alle ore 21, 8 alle 17.30, 13 e 14 alle 21 e il 15 alle 17.30 alla Sala Laudamo, ridotto del Teatro Vittorio Emanuele.

(Clarissa Comunale)

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