Messinesità #adminchiam – Vecchioni ed il mio professore di Meccanica

di Simone Bertuccio – Vecchioni.

A Messina e, credo, in tutta la Sicilia non si parla d’altro.

Innanzitutto la prima cosa che voglio chiedervi è: avete ascoltato tutto il suo intervento? Perché se così non fosse, beh, sarebbe opportuno lo facciate per due motivi. Il primo è che non avrebbe senso che continuate a leggere questo pezzo, il secondo è che, diamine, dovreste approfondire le cose prima di farvi un’opinione. Non ve l’ha insegnato la mamma? Il papà? La nonna? Qualche parente? Ma, che so, pure il bidello. Dovrebbe essere una cosa imprescindibile soprattutto per chi vuole lanciarsi – spesso senza paracadute – il discorsi propedeutici al vivere civile. Per le altre chiacchiere, quelle da bar, a mio avviso invece tutto è concesso.

Fermo restando che esiste la libertà di pensiero ma esiste anche il tempo, quello fatto di secondi, minuti, ore, e contare fino a dieci male non fa, eh.

Quando andavo a scuola il mio Professore/Ingegnere di Meccanica, uno di quelli vecchio stampo, con vestito a quadri scuro, fumatore accanito, pragmatico, di poche parole ma di mano lesta nel metterti un due sul registro senza colpo ferire, durante una delle sue lezioni si lasciò andare ad una lezione sulla vita. Capitava di rado ma capitava. E valevano più di 50 ore mensili di Religione, o di Italiano. Noi, lì per lì, spesso eravamo attoniti di come tanta filosofia, di quella vera, tangibile, mai aleatoria, potesse scaturire da una mente così – ci sembrava – poco romantica, più razionale che irrazionale. Mi ricordo di una lezione in particolare. Mentre eravamo nel nostro laboratorio ci lasciammo andare un po’ ed iniziammo a fare baccano. Il classico baccano del cambio ora tra una lezione e l’altra. Lui era in quel laboratorio, seduto sulla sua poltrona, inamovibile, glaciale e sicuro nell’osservarci ma silente, guardingo come un pipistrello di notte. Noi sapevamo quanto fosse “corto di cerimonie”, sapevamo fin dove spingerci nel fare battute, nel parlare tra di noi, nello spostarci da un banco all’altro. Sovente però, come accade per qualunque gruppo di sedicenni, quel limite andava a farsi benedire e più che ritrovarsi in un laboratorio di meccanica, a chiunque fosse passato di lì sarebbe sembrato di ritrovarsi nella casbah di Tunisi. Un vero e proprio mercato. Vi risparmio cosa avvenne dopo ma vi basti pensare che un mio compagno di classe, nell’esasperazione del momento e facendo il gradasso, uscì senza chiedere il permesso dal laboratorio sbattendo pure la porta. Quel nostro Professore/Ingegnere tutto d’un tratto si alzò con un fare ieratico che fece zittire tutti, si avvicinò alla porta e senza dire nulla la chiuse a chiave, serrandoci praticamente dentro. Tornò alla sua poltrona e sempre in silenzio prese il gessetto. Benché questo suo ultimo gesto significava che non avrebbe interrogato ma bensì spiegato – il che in un’altra situazione ci avrebbe fatto lanciare sguardi di estrema gioia –, se in quel laboratorio fosse volata una zanzara si sarebbe sentita. Fu in quel preciso istante che quel nostro Professore/Ingegnere, superficialmente sicuro di aver catturato l’attenzione, disse: “Io i piedi in testa posso pure farmeli mettere. Ma i piedi in testa con le scarpe fatte di merda no!”.

Questa frase mi è sempre rimasta in testa. L’ho sempre definita una sorta di ode alla dignità e all’orgoglio, utile in qualunque ambito della vita. A scuola calcio, all’università, a lavoro, con gli amici, con la ragazza. E, a proposito di Vecchioni e della “merda”, è stata questa la frase che m’è venuta in testa e mentre riempivo la caffettiera ho iniziato a pensare. Quanto ci sarò stato? Tre minuti? Sì, lo so, sono tanti, ma la miscela dentro il dosatore non la schiaccio perché altrimenti il caffè vien su troppo forte. Questo il tempo per capire che a me i piedi in testa con le scarpe fatte di merda Vecchioni non li ha proprio messi. I piedi in testa sì, quindi, ma senza scarpe.

Forse ha usato una parola forte – che durante una telefonata ripresa da un operatore di Repubblica.it ha affermato essere stata un po’ esagerata, forse per paraculata – ma tutto il discorso è una bella camminata sulla nostra coscienza. Sempre senza scarpe fatte di merda eh, ma una breve e bella camminata. Fatta con delle scarpe da trekking, ché il terreno in Sicilia è impervio, si sa.

Non sto qui a dire se abbia ragione o meno – cosa cambierebbe? – ma ascoltando le sue parole ho cercato di diventare l’oggetto da colpire di una bambola voodoo, dove la bambola in questione era nelle mani del cantautore lombardo. Ho cercato di mettermi alla prova con le parole da lui dette, cercando di fare attenzione a quelle che in me avrebbero suscitato qualcosa e a me la parola “merda”, riferita alla mia terra, m’ha dato solo un leggero pizzichio. Una parte che mi ha fatto male, davvero, è stata quando ha affermato che “Non serve a nulla dire che i poeti salvano il mondo”. (Figuriamoci dire che lo cambiano i pensatori, i parolieri, ho pensato io).

Ha parlato di mare, ha parlato di bellezze che abbiamo e avremo sempre. Di cose ne ha dette, eh. Ed è simpatico ascoltare la registrazione e notare come alcuni, all’inizio del suo discorso quando si riferiva a siciliani senza casco, ridessero. “Ridi, ridi, chi favi s’arrappunu”. Poi, però, se qualcuno venuto da fuori smette di farci ridere, smette di usare i nostri piccoli difettucci per crearne degli stereotipi da avanspettacolo, o dice una parolaccia, ecco che ci mettiamo sugli “Attenti”.

Cioè, fatemi capire, se qualcuno ci descrive male ma con ironia, va bene, mentre se qualcuno ci descrive male, senza ironia, non va più bene? È la parolaccia il problema? Ci stiamo davvero fermando alla parolaccia? Ridere di noi, va bene, ma piangere di noi, no? Boh.

Potrei anche soffermarmi sul fatto che Vecchioni abbia dimenticato che in Sicilia, di siciliani che sono morti per la propria terra, ce ne sono stati, ma farei demagogia, direi cose facili e bla bla bla.

Noi siciliani abbiamo bisogno di essere solo coccolati, forse. Non abbiamo bisogno che qualcuno ci metta i piedi in testa, ché i problemi li sappiamo da noi. Abbiamo bisogno che qualcuno ci trovi la soluzione – anche da importazione – e noi, lì a metterla in atto. Come degli automi.

Quanto erano belle le parole di Cesare Cremonini postate sui vari profili sui social, a conclusione di uno dei suoi ultimi Tour, vero? Anche lui, lì, parlava di terra, di colori, di bellezze. Parlava di una terra magica. Scrisse che a suo avviso «un’Italia migliore non può prescindere da una Sicilia importante»; e ancora che «la Sicilia dovrebbe essere raccontata molto di più per l’unicità di quello che propone piuttosto che per i suoi dolori mai perdonati». Noi di questo abbiamo sempre e solo bisogno. Di adulazione per quello che abbiamo. E in più, se lo fa qualcuno da fuori, beh, quanto è bello! Finalmente abbiamo trovato un personaggio importante, da fuori, che pur non vivendo qui, che pur non componendo qui, è riuscito a comprendere tutte le bellezze di questa terra.

Ma solo le bellezze. Perché uno che non vive qui, che non compone qui – Vecchioni compose in Sicilia l’album Blumun –, non può invece comprendere le bruttezze di questa terra. Ché non sono geologiche, storiche, artistiche. Ma se non parli di questo, tu che vieni da fuori, qui non puoi parlare di nulla.

“Quannu u diavulu t’accarizza voli diri chi voli l’anima” e quante carezze hai avuto, Sicilia amore mio.

Da questo pezzo astenersi leghisti.

Ché i piedi in testa posso pure farmeli mettere ma i piedi in testa con le scarpe fatte di merda no!

 

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