Moro e la fine della politica in Italia

Pippo Campione, già presidente della Regione Siciliana

di Giuseppe Campione – Nella vicenda Moro è come se cominciassimo a muoverci entro un orizzonte di realtà, anche se non ancora di verità. “C’è un punto, da qualche parte, in cui tutto finalmente si incontra […] e diventa possibile conoscere le cose nel loro insieme”: questo l’incipit di Marco Damilano nel suo “Un atomo di verità, Aldo Moro e la fine della politica in Italia”.

Certo al di là dell’azione di fuoco di via Fani. Certo con tutto il cinico carico di “verità dicibili” e con il diabolico cinismo della “destabilizzazione per stabilizzare” all’interno della “rilevante dimensione internazionale” che finirà con l’esigere, anche qui cinicamente, il necessario assassinio di Moro. E allora ancora riinvii, perché il lavoro non era “esaustivo”, anche se “rende molto più chiaro uno degli eventi più drammatici della Storia della Repubblica”. Comunque le attività condotte “restituiscono…a Moro un grande spessore politico e intellettuale sue qualità di statista e di cristiano. Mesi fa la relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro era stata approvata all’unanimità, con una sola astensione. Alla luce delle indagini compiute su rapimento e omicidio, il tutto non appare affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquista “una rilevante dimensione internazionale. Emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro.

Damilano ricorda un passaggio di quella mattina del 16 marzo. Quella mattina Moro, a parte le tesi di laurea all’università, doveva lavorare alla stesura finale di un articolo per il Giorno, nel quale riprendeva una non convergenza, sull’Unità, sul significato del 68 tra Amendola e Petruccioli. E’ significativo che Moro si dissociasse dalla eccessiva prudenza di Amendola. In quella sua contestazione sulla fine anni degli anni 60 Moro avvertiva l’eco “ di una cultura che sospettava di quello che si muoveva nella società”. La politica invece per Moro era esattamente il contrario, “aderenza alla realtà e dominare con intelligenza gli avvenimenti”.

E come avrebbe poi detto Sciascia sarà questa la sua condotta anche da prigionero. E a Racalmuto Damilano rincontrerà “Moro, Pasolini e Sciascia, il cattolico democristiano, il comunista eretico, il laico illuminista e volterriano”…e le loro enigmatiche e tragiche correlazioni, come le chiamava Sciascia. Lì, sfogliando alla Fondazione le pagine dell’affaire Moro, Damilano rivide parole di Sciascia: “Ma questo Moro mi ha dato una inquietudine che sconfinava nell’ossessione…Se 10 anni prima mi avessero detto che Moro avrebbe cambiato la mia vita avrei riso e invece è così”.

Quattro anni prima, nel ’74 , quando aveva pubblicato il noir politico Todo modo, “ affresco barocco, ritratto deforme, romanzo sulla crisi della dc, nell’anno in cui il potere del partito Stato aveva cominciato a tremare, dopo la sconfitta sul referendum e Moro era tornato a Palazzo Chigi” ma tutto si era appesantito. E il film di Petri diventerà ancora più angosciante. Era come il processo che Pasolini voleva intentare a tutta una classe dirigente. Poi Pasolini non ci sarà più. “Era il giudice Sciascia che era tentato dal fare giustizia… contro i colpevoli della mutazione antropologica? Già: erano scomparse le lucciole. Ma “l’intuizione di Pasolini, più poetica che politica, era il vuoto”, scrive Damilano. E “i democristiani, scriveva Pasolini, coprono con la loro manovra…il vuoto” “Persino Aldo Moro [???]: cioè per una enigmatica correlazione, colui che appare il meno implicato di tutti…” Ma [inece] Moro aveva riconosciuto che la dc era stata logorata da tanti anni di governo senza ricambi. Aveva avvertito: “l’avvenire non è in parte più nelle nostre mani.” E aveva pensato a incontri sulle cose che avrebbero potuto unire, a patto, dirà infine, di cambiare anche noi.

Aggiungerà Damilano: “dal momento del rapimento era avvenuta una trasformazione” una sorta di cambiamento interiore, e questo anche per Sciascia: “un’altra verità”  “un’esigenza di risarcimento”, un restituire a Moro quell’umanità che i brigatisti gli avevano tolto, anche e soprattutto per logiche internazionali, come dalla commissione Fioroni.

In realtà dice Corrado Guerzoni, più volte citato da Damilano (era stato vicinissimo a Moro, come portavoce, per due decenni), lo Stato decise di non salvarlo: Aldo Moro fu considerato morto fin dal primo giorno. E per questo Cossiga, che aveva consentito alla demolizione personale di Moro sarebbe diventato Presidente della Repubblica, su proposta dc, con l’assenso di quei comunisti che un anno prima volevano fosse giudicato per alto tradimento.

“E nelle picconate di Cossiga, sferrate dal Quirinale e non da una prigione insonorizzata, c’erano le premesse del crollo del sistema politico “. E anche con Andreotti.

Questo articolo di Giuseppe Campione è stato pubblicato su Repubblica Palermo il 16 marzo 2018.

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