La comunità africana di Messina scrive a De Luca, “chiediamo uno spazio in città, da risistemare e gestire con gli italiani”

Alle provocazioni di De Luca gli africani di Messina, al centro di una non certo facile ondata di intolleranza che si manifesta dall’imbrattamento di murales alla crociata contro i lavavetro, rispondono con una lettera pacata e costruttiva, che punta sul dialogo e che di seguito pubblichiamo (la foto in copertina è d’archivio).

“Al Sindaco De Luca, All’Assessora Musolino, All’Assessora Calafiore,

Nei giorni scorsi una nostra lettera, raccolta da molti come una provocazione, ha avuto il merito di suscitare l’interesse di Rai3, che ha intervistato alcuni di noi e mostrato i nostri volti.

Come conseguenza di quella trasmissione altri fratelli africani e umani che, come chiunque guardano la televisione e leggono i social media, si sono uniti. Siamo perciò lieti di potere dire che, da oggi, non siamo più semplicemente la Comunità nigeriana di Messina, ma quella africana di Messina.

Quella lettera, purtroppo, non ha suscitato lo stesso interesse da parte della Giunta, che non ha compreso la nostra intenzione di essere considerati degli interlocutori al pari di tutti gli altri abitanti, per nascita, naturalizzazione o costrizione, di questa città.

Ancora recentemente (il 7 agosto) lei diffondeva un video che la mostrava intento ad allontanare un lavavetri che, a suo dire, rovinava il decoro urbano. Sempre nello stesso video ricordava che la piazzetta era stata pulita recentemente, come possiamo testimoniare noi stessi. Ma aggiungeva che dei nostri fratelli l’avessero sporcata nuovamente, apponendo dei vecchi vestiti su un albero. E mentre questo particolare é semplicemente falso (i vestiti stavano lì da molto tempo ed erano proprietà di chissà chi), a noi piace pensare che l’operatore incaricato della pulizia li abbia lasciati sul luogo per semplice umanità; ossia per non macchiarsi della colpa morale di deprivare qualcuno dei suoi poveri averi.

Sempre nello stesso video spiegava di non essere razzista. Ma nessuno, Sindaco, l’ha accusata di esserlo. Sarebbe banale e inesatto. Lei, infatti, con le sue politiche colpisce la povertà senza riguardo per i passaporti. Lei, al massimo, avversa la povertà, ma non è certamente un razzista.

Con la nostra lettera, Sindaco De Luca e signore Assessore, affermavamo invece che si sbaglia a trattarci come un problema da soffocare con ordinanze anti-accattonaggio e non come soggetti che, al pari degli italiani poveri, lottano per una esistenza migliore, per un affrancamento dalle costrizioni economiche e per garantire un futuro alle loro famiglie.

Sempre in quel documento, spiegavamo che concorriamo all’economia locale pagando affitti regolarmente denunciati (necessari per rinnovare i permessi di soggiorno) e che utilizziamo l’accattonaggio come strumento di integrazione di salari – versati da italiani – che sono insufficienti a vivere se non si possiede una casa e se non si ha una famiglia che partecipa alle spese. Se, cioè, ci si trova nella condizione di essere quei soggetti incaricati di sorreggere una famiglia spesso numerosa e dotata di pochi mezzi nel proprio paese di origine.

In quella lettera spiegavamo l’importanza delle relazioni sociali ai fini di trovare lavoro, sviluppare contatti e imparare la lingua italiana. Presentavamo, cioè, una prima analisi di una situazione che viene descritta all’insegna del malaffare, del crimine o del danno sociale. Mentre è, più di qualsiasi altra cosa, una questione di rapporti sociali che pongono ai margini i soggetti deboli: gli stranieri così come gli italiani.

Con quella lettera, inoltre, provavamo a spiegare che abbiamo una voce e, spesso, anche un’educazione e una visione. Peraltro, in risposta a certi commenti che l’hanno accompagnata, vorremmo dire che nessun italiano scrive le lettere al nostro posto. Semplicemente ce le traduce.

Povertà, reddito e relazioni, dunque. In questo documento vorremmo partire proprio da queste ultime, spiegando come discorsi e politiche che ci colpevolizzano e criminalizzano sono esse stesse l’esito di una assenza di relazioni. Una assenza che si traduce in ignoranza sulla vita di chi sta in strada e nell’impiego di stereotipi per regolarla e narrarla a un pubblico poco interessato alla complessità e per lo più attento solo a poche parole d’ordine (decoro, disordine, delinquenza, immigrazione). Parole, peraltro, che non sono molto diverse da quelle che adopera la borghesia africana che vuole nascondere la polvere sotto i tappeti.

Queste nostre comunicazioni servono invece a dire che la polvere emerge sempre dai tappeti che devono nasconderla. E che la “polvere sociale” non si elimina con la scopa, ma la si affronta con politiche adeguate.

Se per noi il problema primario sono le relazioni, intese tanto come contatti tra persone diverse quanto come incontri che attivano contatti e opportunità, ciò che chiediamo alla città è uno spazio.

Uno spazio da risistemare e gestire insieme a italiani. Uno spazio in cui offrire e ricevere servizi, che permettano per esempio alle persone di apprendere una lingua (agli italiani così come agli stranieri), alle madri prive di reti familiari di supporto di potere lasciare i bambini e ricavarsi del tempo per andare a lavorare. Spazi in cui organizzare eventi culturali e ridurre il sospetto. E per impegnare i membri della nostra comunità – non quella degli africani, ma quella più vasta dei messinesi, senza riguardo per il loro passaporto – in una attività utile per tutti, che consenta la conoscenza e moltiplichi le opportunità per ciascun individuo.

Spesso, nei commenti on line, si chiede come mai gli africani non siano integrati al pari di altri gruppi nazionali. Quelli, per esempio, che lavorano abitualmente nelle case. La risposta, abbastanza semplice, è che quei gruppi sono entrati in Italia in anni in cui il sospetto e l’odio non avevano ancora caratterizzato le migrazioni. Sono stati percorsi lenti e hanno avuto il supporto di enti come la Chiesa, che hanno mediato tra le famiglie e i lavoratori.

Chi media oggi per gli africani? Chi consente loro di entrare nelle case degli italiani come collaboratori domestici? Chi media per loro al di fuori dei “caporali” incaricati di condurli verso lavori pagati dagli italiani due euro l’ora, come se, invece che persone, questi immigrati fossero la nuova incarnazione di quegli schiavi che hanno fatto la fortuna di Europa e Stati Uniti nei secoli passati?

Noi, Sindaco De Luca, chiediamo di essere riconosciuti come interlocutori e di poterla incontrare per farle comprendere che esistono modi diversi dalle ordinanze anti-accattonaggio per rendere una città “decorosa”. E che nessuno di questi può fare a meno del dialogo con chi viene considerato un problema. Esploriamo insieme le opportunità. Troverà sotto il nostro contatto.

Distinti saluti,

la Comunità africana di Messina

 

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