GIUSEPPE LOTETA RICORDA DANILO DOLCI, UN PERSONAGGIO DIMENTICATO

Danilo Dolci è morto il 30 dicembre del 1997, a 73 anni. Da parecchio tempo non si parlava più di lui. Eppure, per alcuni decenni il suo nome era circolato con gran rilievo nei giornali italiani e in quelli europei, soprattutto scandinavi, legato alle sue battaglie contro la mafia e per un miglioramento significativo delle disperate condizioni di vita di gran parte della popolazione della Sicilia occidentale. Per queste battaglie, per la sua dedizione alla causa che si era assegnato, per i suoi metodi non violenti, era stato ripetutamente candidato al Premio Nobel per la pace.

Vedo per la prima volta Dolci nella sede dell’Astrolabio, a Roma, nel 1967. Ha dato del mafioso a personaggi del calibro di Bernardo Mattarella, il potente ministro democristiano, e di Calogero Volpe, anche lui democristiano e altrettanto potente, almeno in Sicilia. E i due l’hanno querelato, avviando un processo che si svolgeva in quei giorni in un’aula del “Palazzaccio” romano.

Dolci gode della fiducia di Ferruccio Parri, direttore dell’Astrolabio. Non a caso Mattarella e Volpe erano stati accusati di connivenza con la mafia durante un convegno organizzato al cireolo della stampa da L’Espresso, l’Astrolabio, Nuovi Argomenti, Il Ponte e Cronache Meridionali. Io sono incaricato di seguire il processo e sostengo Dolci nel suo tentativo di fare chiarezza nei rapporti che intercorrevano tra mafia e politica. Non era un mistero che la mafia, pur essendo un contropotere, vivesse e prosperasse in congiunzione con esponenti del potere politico, da chiunque fosse detenuto, in un rapporto ben calcolato di dare e avere, maturato nei mesi successivi all’arrivo in Sicilia delle truppe anglo-americane. E il potere in quel tempo era la Democrazia cristiana.

Aveva ragione Dolci ad accusare Mattarella e Volpe? Malgrado la documentazione e le testimonianze prodotte, il tribunale disse di no e condannò l’accusatore querelato a due anni di reclusione. Ma non era la prima volta che Dolci subiva una condanna penale.

Il 30 gennaio del 1956 aveva organizzato sulla spiaggia di San Cataldo, a Trappeto, un digiuno collettivo, seguito, due giorni dopo, da uno sciopero alla rovescia, nel corso del quale lo stesso Danilo e alcune centinaia di contadini della zona avevano cominciato a riattivare una vecchia strada comunale abbandonata. Chiara la denuncia: lo Stato intevenga, dia alla Sicilia possibilità di sviluppo e occasioni di lavoro. Ma lo Stato intervenne con i manganelli della polizia. Dolci fu manganellato, denunciato come individuo con spiccate capacità a delinquere, rinchiuso all’Ucciardone di Palermo per due mesi, processato e condannato per occupazione abusiva di suolo pubblico.

Il processo del 1956 provocò una mezza rivoluzione negli ambienti politici e intellettuali italiani e fece conoscere al mondo il lavoro che Dolci svolgeva nella Sicilia occidentale. Silone, Parri, Pratolini, Sereni, Moravia, Fellini, Cagli, Mauriac, Zevi, Sartre, Sylos Labini, Capitini si schierano in comitati di solidarietà. De Martino, Li Causi, La Malfa presentano interrogazioni parlamentari urgenti. Testimoniano in tribunale in sua difesa Carlo Levi, Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice. Lo difende Piero Calamandrei. Niente da fare. E’ condannato lo stesso.

Ma cosa c’entrava Dolci con la Sicilia? Apparentemente, nulla. Era triestino, di madre slava. Aveva studiato a Milano e aveva condiviso per qualche tempo con don Zeno Saltini l’esperienza di Nomadelfia, una comunità di accoglienza per piccoli orfani. Ma da bambino aveva vissuto per alcuni anni a Trappeto, un paesino nella provincia di Palermo, dove il padre era stato capostazione. Ed è il ricordo di quei giorni, dell’estrema povertà della gente che viveva in quelle zone, del loro bisogno di aiuto, a far scattare la molla che lo porta a ventott’anni, nel 1952, in Sicilia. A Trappeto, a Partinico, nelle zone attraversate dai fiumi Belice e Jato, Dolci fa di tutto.

Le sue sono armi di pressione non violenta, dai digiuni agli scioperi alla rovescia, alle marce. Il suo primo digiuno avviene sul letto di un bambino morto per fame, nello stesso 1952, appena arrivato. E dello stesso periodo è il suo matrimonio con Vincenzina, una vedova povera con cinque figli che lo accompagnerà per gran parte del suo percorso. Scrive libri, coinvolge intere popolazioni, ottiene la costruzione delle dighe sul Belice e sullo Jato, fonda a Partinico il “Centro studi e iniziative” con la collaborazione di urbanisti, architetti, sociologi, economisti di tutt’Europa. Al suo libro “Inchiesta a Palermo” viene aasegnato nel 1968 il premio Viareggio.

Il 15 gennaio del 1968 il terremoto distrugge i paesi della valle del Belice. Otto mesi dopo, a settembre, la ricostruzione non è neppure cominciata e gli scampati al disastro sopravvivono in condizioni disumane. Dolci non sta con le mani in mano. Organizza a Montevago cinquanta giorni di pressione e di manifestazioni per la rinascita del Belice e per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e dello Stato sul “Piano di sviluppo democratico” di quelle zone, elaborato dal suo centro studi. Arrivo im macchina da Palermo insieme con Bruno Zevi. Il tempo è bello e all’inizio sembra una gita. Poi si comincia ad entrare nelle zone terremotate ed è l’inferno. Ovunque macerie, distruzioni, paesi scomparsi. Camporeale: le baracche con i tetti di lamiera che scottano d’estate e gelano d’inverno. Santa Margherita Belice, la terra di Tomasi di Lampedusa: il palazzo del Gattopardo è ancora lì, a mostrare tra le rovine spaccati meravigliosi di stucchi e affreschi. E intorno, desolazione e rovine, tende e ricoveri di fortuna, mentre a pochi passi – sembra una beffa – sono cominciati i lavori per la costruzione di un acquedotto che gli abitanti aspettavano da quarant’anni e che ora è perfettamente inutile in una zona dove non sorgeranno più case. Menfi: macerie e case pericolanti ancora abitate perchè le baracche per i rifugiati non sono pronte. E finalmente Montevago. Il paese non c’è più. La grande e brutta baracca del municipio ospita Dolci e un centinaio di persone. C’è anche il pittore Ernesto trecani. Si comincia.

Dolci parla della sua iniziativa, delle cose da fare in questi cinquanta giorni. A soprpresa annuncia un digiuno collettivo di tre giorni. “Lo faremo tutti quelli che siamo qui a partire da subito”, dice. E si stende su un lettino che stava alle sue spalle e che non avevo notato prima. Debbo confessare una debolezza. A questo punto sono assalito da una fame terribile. Chiamo sottovoce una fotografa che aveva viaggiato con me da Roma a Montevago. Usciamo di soppiatto. In una baracca si vendono generi alimentari. Compriamo un pane enorme ripieno di mortadella e lo mangiamo con voracità. Ecco, ora possiamo anche digiunare.

La stella di Dolci comincia ad offuscarsi alla fine degli anni Settanta. Danilo non ha un carattere facile. E’ autoritario. Ascolta le ragioni di tutti, ma poi è lui a decidere. Non ama i ripensamenti nè in sè nè negli altri, anxhe se ci sono buone ragioni per averle. Ed è proprio il carattere ad allontanare da lui parecchi collaboratori, a cominciare dal fedele Franco Alasia, che lo segue fin dall’inizio. Poi è la crisi del centro sperimentale di Mirto, una struttura educativa che aveva creato nel 1974. Gli insegnanti del centro finiranno per fargli causa. E, infine, si discute molto dei fondi che riceve da molti paesi europei. Nè lo aiuta, nel giudizio dell’opinione pubblica, la separazione da Vincenzina, che gli aveva dato cinque figli (oltre i cinque che aveva avuto dal primo marito), e la decisione di convivere con una giornalista svedese, dalla quale ha altri due figli, ma che, dopo pochi anni, lo lascia. L’ultima sua iniziativa, nel 1988, è il lancio di un “Manifesto sulla comunicazione”, sottoscritto da molte personalità europee, in cui critica il dilagare della televisione e degli altri mezzi di comunicazione di massa. Ma le battaglie del passato sono soltanto un ricordo. Quando muore, grandi folle in Italia e in tutto il mondo piangono per la scomparsa di lady Diana Spencer e si interrogano sui misteri della sua fine. Di Dolci si ricordano in pochi. (GIUSEPPE LOTETA)

Nella foto in ordine : Franco Alasia, Danilo Dolci e Giuseppe Loteta

 

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