LA LAMPADINA GALLEGGIANTE NON ACCENDE IL TEATRO VITTORIO EMANUELE

 

Avrei voluto che qualcuno ponesse fine alle mie sofferenze già a metà del primo atto,  alla fine dello spettacolo ero distrutto, prosciugato di ogni linfa vitale. Potete immaginarmi sotto la doccia mentre mi insapono e piango chiedendo “Perché?” ad un Dio indubbiamente crudele e beffardo. Un perché che riassume tutti i perché che mi hanno assalito durante la serata: perché proporre uno stile da commedia di Broadway se non si è capaci, perché affidare il successo dello spettacolo (successo? Mah) solo ed esclusivamente al testo di Woody Allen, perché sono stati scelti interpreti inconsapevoli di cosa siano i tempi comici, perché questi ultimi non sapevano che fare in scena tanto da tormentarsi sempre con le stesse azioni inutili, sistemare sempre le solite sedie, aprire il frigorifero, non avere una collocazione adeguata per le mani?

Mariangela D’Abbraccio, o M.la D’Abbraccio come scritto sul sito del Teatro Vittorio Emanuele, sostituisce Giuliana De Sio, e interpreta la madre di questa piccola e disperata famiglia. Ad un certo punto ho provato tenerezza per lei, non per il personaggio, ma proprio per la signora D’Abbraccio la quale faceva trasparire un certo disagio. Sarà stato il non sapere che fare in scena oltre al parlare, o per l’isteria sulla quale è stata improntata la pièce, vuoi quello che vuoi, fatto sta che la signora non faceva altro che aggrapparsi disperatamente a gesti stancanti e troppo usati come quello di indicare ripetutamente col pollice qualunque cosa fosse esterna alla scena: alla decima volta mi son domandato se non stesse invece cercando un passaggio per tornare all’albergo una volta finito il martirio teatrale.

Mimmo Mancini interpretava il padre Max, e “interpretava” in effetti è una parola grossa: sembrava posseduto dal demone della Break Dance tanto si contorceva e saltellava con le gambe, un po’ come John Travolta in Grease, solo  che lì si ballava e si cantava. Il personaggio è un ometto irresponsabile  che sogna di arricchirsi e mandare a quel paese famiglia e problemi per vivere una seconda giovinezza con l’amante , e per far questo si mette nelle mani di certi strozzini: è così Mimmo, il buon vecchio e caro Mimmo, ci dipinge , alla faccia di una profondità complessa e articolata,  un cinquantenne  un po’ mafiosetto degno della peggior parodia di Quei Bravi Ragazzi.

Ma veniamo all’amante, interpretata da Barbara Giordano, bella ragazza nella vita, ma poco fascinosa sul palcoscenico. Memorabili i momenti in cui aveva qualche battuta per la verosimiglianza vocale con C-3PO: “HAI-DEI-BEGLI-OCCHI, ANDIAMO-IN-FLORIDA, BATTERIA-SCARICA-BATTERIA-SCARICA”. Che altro dire?

Veniamo ai due figli: Luca Buccarello, che interpreta il più piccolo, è esattamente il motivo per cui non procreerò mai.

Emanuele Sgroi interpreta invece il più grande, Paul, ragazzo introverso e balbuziente che ama la magia e l’illusione, mondo fantastico che lo può trascinare oltre le miserie umane e le tristi difficoltà. Ovviamente Sgroi non ce la fa: in un tripudio di convulsioni esagerate che fa temere per la stessa salute dell’attore, cerca di ricalcare i disagi psicologici di Woody Allen divenendo fastidioso ma senza evocare alcuna empatia.

C’è anche Fulvio Falzarano che, approfittandosi del contesto generale, fa una discreta figura pur interpretando davvero in modo poco credibile.

La regia è di  Armando Pugliese e a lui vanno prevalentemente i miei perché più sentiti.

Non mi aspettavo ovviamente un capolavoro, Mr. Pugliese, ma non mi aspettavo nemmeno questo.

In sala qualcuno si è pure addormentato, salvo risvegliarsi ai saluti finali applaudendo. Io, purtroppo, ho sempre avuto difficoltà ad addormentarmi, altrimenti ne avrei di certo tratto giovamento.

(RE CARLO)

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