Paolo Cognetti e l’arte di narrare nel suo “A pesca nelle pozze più profonde”: la decostruzione manualistica della scrittura e della lettura

«Il narratore entra fra i maestri e i saggi. Egli “ha consiglio” […]. Poiché gli è dato riferirsi a un’intera vita (Una vita, del resto, che comprende in sé non solo la propria esistenza, ma non poco di quella degli altri. Nel narratore anche ciò che ha appreso per sentito dire si assimila a ciò che è più suo). Il suo talento è la sua vita; la sua dignità quella di saperla narrare fino in fondo. Il narratore è l’uomo che potrebbe lasciar consumare fino in fondo il lucignolo della propria vita alla fiamma misurata del suo racconto. Di qui deriva l’incomparabile atmosfera che – in Leskov come in Hauff, in Poe come in Stevenson – circonda il narratore. Il narratore è la figura in cui il giusto incontra se stesso» (W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov).

Così Walter Benjamin designava il narratore come quella figura capace di raccontare la vita, incarnarla nei suoi personaggi e lasciare bruciare la fiamma delle sue parole alle soglie di tutto quello che il racconto lascia fuori, quando, dopo le poche pagine che lo intercorrono, improvvisamente si interrompe. Un non-manuale, un racconto di decostruzione di lettura e di scrittura è quello che investe Paolo Cognetti, uno dei più apprezzati narratori della sua generazione in Italia, nel suo A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull’arte di scrivere racconti (ed. Minimum Fax, 2014), presentato alla libreria “Colapesce” con Filippo Nicosia. Il testo, diviso in tre parti, affronta la drammaticità, l’incoscienza e la presunzione dell’atto di scrittura di un racconto, che si rivela sempre «una resa e una sfida» (p.18). Così attraverso i grandi nomi della letteratura americana, da Raymond Carver ad Ernest Hemingway, da Salinger al premio nobel Alice Munro, sapientemente citati nel testo ed elencati nell’Appendice, Cognetti indaga nei meandri del mistero della scrittura, con l’intento, però, di rimanervi impigliato dentro: «Io entro in una storia e mi ci muovo. Mi sposto da una stanza all’altra e guardo. Scrivere non è costruire una casa: è visitarla, abitarci dentro. La casa esiste già, ed è una casa piena di segreti; a noi tocca il lavoro di scrutare nell’armadio e sotto il letto, accendere le luci, sfondare le porte chiuse. Non l’architetto ma lo scrittore-ospite, lo scrittore-esploratore: questo mi interessa molto» (p. 48). Quello che si instaura, dunque, con la scrittura è una religio, un legame personale, stretto tra narratore e personaggio, destinato, però, ad avere una fine, in cui il personaggio prosegue per la sua strada: «all’inizio c’è una solitudine. Poi un incontro. Poi la storia di come cambiano le cose. se certi scrittori ci tengono tanto, a raccontarla ogni volta daccapo, è perché per alcuni di noi quell’incontro è l’ambizione stessa della scrittura: dove la stanza è la mia, l’intruso sei tu, e la porta è il libro che hai per le mani. Così l’incontro che descrivo è una speranza, auspicio di ciò che può compiersi tra noi» (p.86). Cognetti descrive una religio che ha fatto sì che Sofia, il fortunato personaggio dei suoi racconti, diventi una specie di “fidanzata immaginaria” alla quale si è dedicato per cinque anni e sulla quale ha scritto quattro racconti, o meglio perle, che impreziosiscono l’ultima parte di A pesca nelle pozze più profonde.

Il racconto per Cognetti è come la pesca nei torrenti, nelle acque turgide e difficili da cacciare, in cui l’attesa è l’unica dimensione temporale che detta legge. L’obiettivo è l’inarrivabile: raccontare l’invisibile, rispettare l’indicibile, fotografare l’istante, come lo stesso Cortázar suggeriva. Ecco perché, secondo Cognetti il racconto è sempre un atto “incompiuto”: “Un racconto – dichiara lo scrittore milanese – è una luce passata velocemente nel buio. È il luogo in cui si parla di persone, chi se ne frega se non esiste una trama!”.

Lo scrittore, insomma, deve essere capace di realizzare un racconto come un frammento spazio-temporale privato, in cui il paesaggio è «il pezzetto di mondo che ho intorno» e il tempo non è cronologico, ma, in forza della memoria, possibilità di andare avanti e indietro. Il racconto è la fine del narratore onnisciente, la fine dell’utilizzo “egoistico” della prima persona così come “indifferente” della terza, è «lo sconforto e la fiducia. A volte in montagna ho una fantasia: quella di trovare una cresta, un picco nascosto […]. Sulle Alpi non c’è nemmeno un sasso che non sia stato toccato dall’uomo: nessuna Alaska, nessuna frontiera[…]. Scopro di non essere un esploratore né un pioniere, ma solo uno che ricalca le orme altrui. Il fatto è che per arrivare in cima, per affrontare la salita e godere delle sensazioni che mi dà, ho bisogno di farlo come se fossi il primo, di salvare la mia preziosa ingenuità dagli attacchi della mia consapevolezza. Ci vuole la stessa inconscia per posare la penna sul foglio» (pp.96-97).

Se pescare nelle pozze allora è impresa sconfortante e ardua, quasi epica, la profondità che se ne trae, quando all’improvviso nella risalita un pesce abbocca, è la preziosità e l’unicità irripetibile che incastona una nuova verità, un nuovo senso alla realtà.

 

Paolo Cognetti (Milano 1978) è autore di Sofia si veste sempre di nero (2012), segnalato al Premio Strega 2013, Manuale per ragazze di successo (2004), Una cosa piccola che sta per esplodere (2007), tutti pubblicati per Minimum Fax, e New York è una finestra senza tende (Laterza 2010), Il ragazzo selvatico(Terre di Mezzo 2013) e Tutte le mie preghiere guardano verso ovest (EDT 2013).

(Clarissa Comunale)

Partecipa alla discussione. Commenta l'articolo su Messinaora.it