Atto Unico: “Volevo essere brava” di Acacia, la denuncia e l’irriverenza delle donne capitalizzate in un corpo (in)giusto

Sono le donne che vomitano sul palco le loro scelte, la loro rovine, i loro uomini sbagliati. Ieri sera il debutto di “Volevo essere brava” di Paride Acacia, che ha messo in scena sette donne, coreografate da Sarah Lanza, davvero brave: Gabriella Cacia, Laura Giannone, Elvira Ghirlanda, Rita Lauro, Anna Musicò, Francesca Gambino, Giovanna Verdelli. Chiesa Santa Maria Alemanna gremita, con tanta gente anche in piedi, per una prima già sold out.

Lo spettacolo, all’interno del cartellone “Atto Unico”, diretto da Auretta Sterrantino, è liberamente tratto dal Corpo giusto di Eve Ensler e affronta lo scottante problema di genere che si fa largo dalle lotte di emancipazione alle iniezioni di botulino.

Uno squadrone femminile, altamente capitalizzato, si pone al comando di una società palestrata, pompata fino all’osso, anestetizzata. Il corpo diventa il campo di battaglia, spazio indefinibile di deturpazione e logoramento irreversibili di una femminilità che tanto si conquista tanto si perde. Dove sono le brave ragazze con le gambe serrate? Ora sono perfette, in carriera, non invecchiano e vivono una vita autonoma.

L’irrefrenabile esigenza di non mangiare pane, così come di non mangiare niente, di cancellare la propria pancia, nasce, però, da un profondo senso di inadeguatezza, per cui una donna non riesce a proclamarsi mai vincitrice, mai eroina, ma sconfitta, schiacciata essa stessa dal sistema “pop”, costruito da calorie, silicone e proteine in barretta. E l’inadeguatezza si trasforma in dramma quando l’obiettivo è passare dai 42 kg a niente. Tra le Spa come campi di concentramento per grassi, al morire volontariamente di fame, all’uso sistematico della chirurgia estetica come centro di riciclo per se stesse, le donne non si vogliono dare alternative, ma solo seguire pedissequamente i consigli della rivista “Cosmo”, una specie di Bibbia del nuovo secolo.

Un corpo (in)giusto passa da un eccesso all’altro, accusa la società, i tradimenti dei genitori, i giudizi della gente, le invidie delle altre donne. Un corpo (in)giusto diventa il compito da correggere, marcato di rosso, nei punti in cui dovrebbe ritornare a risplendere. Diventa azienda, pubblicità, oggetto, propaganda politica.

Le donne vivono il dramma del loro corpo sin dall’adolescenza, con il primo sorgere dei brufoli sul viso. Le donne vivono il dramma del loro corpo quando comincia a crescere il seno e catturano l’attenzione di uomini, selvaggi, bramosi, complessati, deboli ed incapaci. Le donne, raggiunti i cinquant’anni, però, hanno vagine da restringere per mariti problematici e hanno gelati da nascondere per stomaci ingombranti.

Essere brave significa, allora, “vivere pienamente in ogni cosa, il nostro corpo è il nostro paese”, è lo slogan che chiude lo spettacolo, che si fa denuncia anche attraverso perle del rock: da Lou Reed ai Sex Pistols. Tutti ribelli, tutti contro le violenze e l’idiozia che fa pensare che ancora le donne, in realtà, hanno tanto da conquistare, forse tutto.

Paride Acacia, attore, cantante, protagonista nel musical “Jesus Christ Superstar”, impegnato anche didatticamente nel territorio messinese, ha curato la regia di “Volevo essere brava”, che ha definito composto dalla “giusta dose di militanza politica che non scade nella faziosità, di ironia che non guasta mai, e soprattutto racconta storie di donne di diversa etnia, classe sociale ed età che introducono lo spettatore davvero in una dimensione parallela. La drammaturgia dello spettacolo si discosta dal testo nella misura in cui non lo violenta, ma ne allarga la coscienza, lo colora, lo amplifica e lo solidifica. E’ fedele nella misura in cui non è bonariamente didascalico, non si limita a leggerlo, ma lo stravolge cercando di rimanere fedele allo spirito del racconto. Odio il teatro letto! Si potrebbe definirlo teatro leggero, poiché con leggerezza e brio introduciamo temi scottanti, riflessioni importanti. Un testo anarchico, irriverente che prende di mira il corpo delle donne, sezionandolo alla luce della cultura capitalista ormai globalizzata, fatta di diete, bisturi, botulino, e ritocchi invasivi. Sono allergico agli spettacoli che mi vogliono insegnare con piglio professorale, che tentano di indottrinarmi con il politicamente corretto. Il teatro di denuncia dove siamo tutti d’accordo lo trovo poco stimolante”.

(Clarissa Comunale)

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