Messina in bianco e nero: il pescestocco, Donna Giovanna e le altre

di Giuseppe Loteta – E’ il marzo del 1972 quando il poeta Bartolo Cattafi dedica una delle poesie della raccolta “L’aria secca del fuoco” alla più famosa trattoria di Messina. S’intitola “Da Donna Giovanna”. Eccola: “Qui da Donna Giovanna trattoria/ mangio all’ombra d’eucalipti e di palme assenti/ macerie di terremoti e fumanti sciagure/ fatti d’arme commerci alghe e malcerte/ creature d’abisso marino./ Mi domando chi sono le quattro popolane/ dietro i quattro fuochi di cucina/ che in solo boccone/ incapsulano favolose storie/ geografie”.

Cinque anni dopo i fratelli Miceli, che molto tempo prima avevano dato vita alla trattoria, si ritirano dall’impresa. Muore così, nel 1977, un’istituzione che, come il bar Irrera, l’Irreramare, i teatri Peloro e Savoia, gli stabilimenti balnerari Vittoria e Principe Amedeo, le librerie D’Anna, Ferrara e Ospe, aveva caratterizzato Messina negli anni di mezzo del secolo scorso.


Negli anni Quaranta e Cinquanta i ristoranti nella nostra città erano pochi, quelli degli alberghi soprattutto: il Tomarchio al Reale, il ristorante del Grand Hotel, di proprietà di Angelo Musco, sul viale San Martino, dove aveva un tavolo fisso il giornalista e storiografo di Messina, Nitto Scaglione. E, d’estate, il ristorante dell’Irreramare. Ma le trattorie erano molte, accoglienti, modiche nei prezzi e ricche di piatti della cucina locale.

viatommasocannizzaroSu tutte primeggiava Donna Giovanna. L’idea era venuta negli ultimi anni Trenta ai fratelli Lillo, Paolo e Michele Miceli, figli di donna Giovanna, appunto. Avevano affittato un pianterreno sulla via Risorgimento, quasi ad angolo con la via Tommaso Cannizzaro e lo avevano adibito alla bisogna. Da allora, per quarant’anni, parecchie generazioni di messinesi sono passati da quei tavoli, dove era veramente possibile fare con le pietanze “storia e geografia”, come ricordava in versi Cattafi. Le “quattro popolane dietro i quattro fuochi di cucina” erano in realtà tre, le mogli dei Miceli, Lina, Jolanda e Ines, che i fratelli avevano conosciuto quando avevano fatto il servizio militare a Parma e che poi avevano seguito i mariti a Messina. Come fosse possibile a queste donne del nord cucinare in modo ineguagliabile i piatti tipici della cucina messinese è un mistero di cui non resta che prendere atto.


Chi mangiava da Donna Giovanna? Chi serviva a tavola? E che cosa si mangiava? Chi scrive ricorda con nostalgia le serate trascorse intorno ai piatti fumanti, arricchiti dall’immancabile vino rosso del Faro, con Nino Crimi, Eugenio Vitarelli, Pasquale Calapso, Nicola Sframeli, Attilio Bozzo e altri amici. Ma i tavoli fissi o ricorrenti erano molti altri.

Non mancavano i D’Alcontres, principi e marchesi, con il loro immancabile seguito di amici e cortigiani. Nè i grossi commercianti del viale San Martino, i Giordano, i Siracusano, gli Andreozzi, Armando De Dominici con la figlia Rosetta che poi, sposata con Pietro Caminiti, avrebbe continuato a frequentare la trattoria con il marito e i figli Salvatore e Patrizia.

Non mancava Mimmo Ferraro, impeccabile nei suoi abiti a doppiopetto confezionati dallo zio Vallone su stoffe che Mimmo sottraeva nottetempo dagli scaffali della madre, sarta rinomata e creatrice di moda. Nè Giuseppe Parisi, il barbiere-gentiluomo, proprietario e gestore del salone Furfari. O Giovannino Reale, il sarto nella cui bottega-salotto, in via XXVII luglio, angolo via Ghibellina, si consumavano gli ultimi pettegolezzi e si commentavano gli ultimi scandali della città.


In una saletta riservata teneva i suoi banchetti l’Accademia della Scocca. Riuniti dall’infaticabile Antonio Saitta, proprietario e gestore della libreria Ospe, discettavano di tutto tra un piatto e l’altro Salvatore Quasimodo, Vann’Antò, Salvatore Pugliatti e gli altri soci dell’ “allegra brigata”. “Una granita di caffè con panna”, notava Quasimodo, “è un endecasillabo perfetto”.

Ma è più facile dire chi non c’era. Intere categorie di professionisti messinesi sono passati per quei tavoli. E si deve ad una di esse, quella forense, la creazione di un piatto che poi rimase fisso nella lista della trattoria.

frati_mazzarrinoNegli ultimi anni Cinquanta un gruppo di frati cappuccini di un convento siciliano, a Mazzarino, fu al centro di un giro di estorsioni, minacce, ricatti e omicidi. I frati, insieme con gli esecutori materiali degli atti delittuosi, furono arrestati. Il processo si svolse nel 1962 nella Corte d’Assise di Messina e fu uno dei più seguiti di quel tempo dai giornali e dall’opinione pubblica. Alla difesa, il decano degli avvocati italiani, il vecchio Francesco Carnelutti, l’ex presidente della Regione Sicilia, Giuseppe Alessi, il deputato Nino Dante.

Per la parte civile gli avvocati Nino Sorgi, padre del giornalista Marcello, e Girolamo Bellavista, allora docente di procedura penale nell’Università di Messina. Pubblica accusa, il sostituto procuratore Salvatore Di Giacomo, figlio del letterato Vann’Antò. Insieme con un folto gruppo di avvocati messinesi (Pietro Pisani, Paolo Davì, Eugenio Marotta, clienti abituali della trattoria), andavano tutti a cenare da Donna Giovanna. E lì, con la complicità delle “quattro popolane” in cucina, sperimentarono un piatto di pasta condita con pomodoro, peperoncino, prezzemolo, basilico e aglio. Lo definirono “Spaghetti alla Corte d’Assise”. E tale rimase.


Ma la “Corte d’Assise” non era l’unica specialità della casa. Aiutava le mogli in cucina una ragazza, Rosa, addetta esclusivamente alla preparazione delle crocchette di patate. I vecchi avventori della trattoria affermano con decisione che a Messina non si sono più mangiate crocchette così buone. Presentate a tavola insieme con le mozzarelline, gli assaggi di caponatina e di parmigiana di melanzane, costituivano l’antipasto.

Poi si passava ai primi piatti e ai secondi. Fra questi il pescestocco in tutte le possibili variazioni culinarie, crudo in insalata, alla ghiotta, arrostito, bollito. Di suo, Donna Giovana ne offriva una versione “alla marinarella”, in bianco o col pomodoro, sughi che poi potevano condire gli spaghetti o le linguine. E ancora il “soffritto”, le ormai introvabili zampette di vitello bollite e condite con olio, limone, sedano e peperoncino, le immancabili “stuppateddi”, fritture di pesci d’ogni sorta.


Servivano a tavola tre camerieri fissi. Il primo, Pippo Busà, era lì fin dall’inizio, dai lontani anni Trenta. Il secondo, Nino Doddis, era arrivato nel dopoguerra. E il terzo, Mario Gioveni, che poi lavorò da “Piero”, nel 1965, all’età di 17 anni. Ma non erano camerieri, erano amici dei clienti. Suggerivano le pietanze giuste, partecipavano alle conversazioni che si svolgevano nei tavoli, raccontavano gli ultimi avvenimenti accaduti nel locale. Di quella volta che, appena eletto, un deputato cittadino aveva invitato a cena un folto gruppo di amici per poi scoprire, a fine pasto, che nessuno di questi aveva votato per lui. O di quell’altra volta che una delle mogli-cuoche, persa la pazienza, aveva mandato al diavolo con espressioni forti nei dialetti parmense e messinese Giovanni Marangolo, il signore di mezza età che si ostinava a farsi chiamare principe Falkenburg e che vantava inesistenti legami di sangue con la regina d’Inghilterra, perché si era stancata di sentirlo brontolare per la presenza di aglio, che lui non tollerava, nel sugo di pomodoro.

Sulla strada, davanti alla trattoria, era presente da sempre il guardamacchine Liborio, che nessuno ha più visto dal 1977, scomparso con Donna Giovanna.


E le altre trattorie? Una di queste diede addirtittura nome ad una piazza. Di fatto, almeno. Per lungo tempo, e i vecchi messinesi lo ricordano ancora, piazza Risorgimento fu chiamata da tutti piazza don Fano. La trattoria rimase lì per molti anni. Entrando, sulla destra, facevano mostra di sè le botti dalle quali veniva spillato il vino rosso che accompagnava i cibi. Specialità: braciole e trippa.

Don Mommo era in fondo alla circonvallazione. Per arrivarci si facevano lunghe passeggiate guardando il centro di Messina dall’alto. E d’estate si mangiava fuori. Indimenticabili le braciole di carne, cotte a fuoco vivo, enormi, ripiene a dovere, inumidite con lo strutto. E ancora, don Federico, Costa all’Annunziata, Bonanno.

Una menzione particolare merita “don Pitruzzu all’Opira”, un buchetto seminterrato in piazza Catalani, di fronte alla statua di don Giovanni d’Austria. Vi si cucinava quasi esclusivamente il pescestocco a ghiotta. E lo si poteva trovare sempre, anche nelle prime ore del giorno. I clienti mattutini erano i lavoratori notturni che avevano finito il loro turno e quelli che volevano dare inizio all’attività giornaliera con una colazione sostanziosa. L’ “Opira” aggiunta al nome del titolare derivava dalla contiguità, a pochi metri di distanza, con l’Opera dei pupi dove don Lisciandro faceva uscire ogni sera il suo Orlando che “con la durlindana d’argento nni mmazzau dumila e cincucentu”. Provocando nel pubblico l’immancabile urlo: “Scalamula, don Lisciandru!”.


da_linaPer finire, uno sguardo ai dintorni. L’ “Annuario Guida della città di Messina” del 1902 dedica un’intera pagina al “Ristorante della Napoletana”, nel “Villaggio Ganzirri”. E’ illustrata con un disegno che mostra un’elegante palazzina con un pianterreno e un primo piano circondato da una veranda. Vi si legge: “Il più pittoresco della Sicilia. Cucina sceltissima. Assortimento vini e liquori”.

Negli anni Venti diventa più modestamente trattoria ed è certamente la più antica di Messina Ristrutturata, é in attività ancor oggi. Una delle due che negli anni Cinquanta esistevano a Ganzirri. La seconda era “Lina”, sulla sinistra arrivando da Messina, all’inizio del lago. D’ obbligo cominciare il pranzo o la cena con le cozze del lago, crude o cotte al vapore, abbondanti di limone spremuto, completate con il pane casereccio e con il vino del Faro. Buon appetito.

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