Messinesità #adminchiam – Messina e i feudi

di Simone Bertuccio – A Messina da qualche giorno non si parla d’altro. Il possibile dissesto finanziario a cui il Comune della città dello Stretto sta andando incontro è argomento che, giustamente, rimbalza da testata giornalistica a testata giornalistica. Non sto qui ad entrare nei dettagli. C’è sicuramente chi ha seguito più da vicino la vicenda – insieme alla stessa conferenza del Sindaco Accorinti insieme a tutta la Giunta al completo svoltasi oggi a Palazzo Zanca – e che sicuramente ha argomenti e modi per raccontarli in modo molto più preciso di me.

Ma pensando e ripensando su cosa scrivere il pezzo di oggi, ho cercato di scavare un po’ sul senso delle argomentazioni che sono raccolte in questa rubrica.

A Messina si parla sempre delle stesse cose. È inutile. Non c’è mai un’evoluzione, uno slancio verso l’alto. Per carità, indipendentemente dalle iniziative di una qualunque Amministrazione che possono anche essere buone, ma tant’è. Mi guardo in giro alla ricerca di qualcosa da raccontare e, a parte qualche novità su qualcosa di destabilizzante – vedi la scerbatura degli alberi di Piazza Cairoli –, le abitudini dei messinesi, di alto, medio e basso borgo, sono sempre le stesse.

Il messinese perde il pelo ma non il vizio.

Perché, se anche decidi di non trattare un argomento in quanto già precedentemente affrontato, non puoi fare a meno di riprenderlo in mano, a volte, e di ritrovargli così tante sfumature che è impossibile non trattarle per una rubrica così.

Lo sostengo sempre: a Messina, anche quando credi di aver terminato la vena creativa, troverai sempre qualcosa di cui parlare. Messina si auto-rigenera. Assomiglia un po’ a Bane, personaggio del fumetto di Batman. È un boss molto pericoloso, molto possente, e la sua forza è dovuta ad uno steroide rigenerante, il Venom, che gli viene direttamente iniettato nel corpo con dei cavi collegati alle sue vene. Ecco, Messina la vedo un po’ così.

aristotele196A cosa voglio arrivare? Quale potrebbe essere un esempio? I venditori ambulanti. Ne ho scritto tante volte. Sia direttamente che indirettamente e non solo su questa testata. È un argomento rispetto cui mi chiedo spesso se ci sia davvero un limite entro cui presentarlo al pubblico, con il rischio d’annoiarlo. Esisterebbe, questo limite, se qualcosa cambiasse. Ma più ti guardi in giro, più ti rispondi che nulla cambia. E non si può nemmeno citare il Gattopardo perché la famosa frase Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” in che modo potrebbe aiutarci? Tutto rimane com’è e non ha bisogno che il Tutto cambi. Perdonerete la visione catastrofica ma questo mio pensiero vuole – o vorrebbe – essere una bella e presuntuosa spinta contro coloro che credono nell’immediatezza di un miglioramento della situazione semplicemente appoggiandosi al Sindaco di turno. Perché, nel bene e nel male, lo diceva pure Aristotele che Ogni popolo ha il governo che si merita”. È tutto un circolo vizioso.

Ma torniamo un attimo indietro, a ciò a cui volevo arrivare. I venditori ambulanti. Raschiando nell’immenso e infinito barile delle argomentazioni mi imbatto in una serie di Pallet di legno in mezzo alla Statale. Scorro con l’auto, passano i chilometri e, oltre a questi pallets, vedo, in prossimità del marciapiede, scatole di legno, secchi riempiti con delle pietre, vasi di fiori, sedie. Interi avamposti, coatti possedimenti di terra di ambulanti che s’impadroniscono, appunto, di grandi porzioni stradali. E poco importa se possono intralciare il traffico, poco importa se occupano delle utili porzioni di spazio normalmente utilizzate per il parcheggio, poco importa se possono essere pericolose per il movimento pedonale, poco importa se, la sera, risultano essere pericolosi per eventuali incidenti. Poco importa se sono lì, alla luce del sole e sotto il chiaro di luna. Quel posto ormai è loro. Ci si impadronisce di tutto in questa città, a totale, indiscusso ed indiscriminato piacimento, usando, come ufficioso mezzo di baratto, il tempo d’utilizzo di un’area, le conoscenze, il pubblico ormai fiduciario. Strade completamente adornate di oggetti disseminati e demarcanti uno spazio utile allo svolgimento di esercizi commerciali che, per il termine “ambulante”, dovrebbero essere itineranti e che, per l’appunto, non lo sono.

Percorro osservando la Statale, le stradine, e mi rendo conto di come la Legge, il rispetto delle regole, abbia ceduto il passo all’autogestione assoggettata, a sua volta, al Bisogno. Al Bisogno è permesso tutto. È permesso impossessarsi della città a proprio piacimento, è permesso impossessarsi dello spazio di tutti, è permesso farsi beffe di chi i diritti per esercitare il mestiere in funzione di un Bisogno li paga, se li guadagna pagando un affitto.

Ho sempre più la sensazione che il Dovere stia lasciando spazio al Diritto, che l’equilibrio tra le due parti ormai stia per perdere di consistenza, che si stia un po’ tornando ad una sorta di Feudalesimo.

Qui si scava e si scava, nella speranza di riuscire a trovare argomenti attuali che, bisogna dir la verità, non mancano mai. Ma appena si smette di farlo, appena ci si immerge nel quotidiano, appena ci si muove con mezzi privati, mezzi pubblici, o semplicemente a piedi, ci si rende conto che il racconto ed il confronto con la realtà devono fare i conti con uno spazio sincopato, discontinuo, ormai non più di tutti ma di pochi.

Nella proiezione di rendere questa città più vivibile, ognuno s’è presa la sua parte che gli interessa e se l’è cucita addosso.

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