Le Sorelle Macaluso ed Emma Dante: ritratto di famiglia e sicilianità

di Palmira Mancuso – Un lungo applauso, liberatorio, quasi a stringere in un abbraccio i vivi e i morti che dal palco del Teatro Vittorio Emanuele hanno fatto comunione con un pubblico attento e commosso.

Le Sorelle Macaluso di Emma Dante, in scena a Messina fino al 19 dicembre, hanno toccato corde profondissime dell’animo umano, in un continuo gioco di assi dimensionali, quelle sottili linee d’ombra che separano i ricordi dalla realtà, l’assenza dalla presenza costante e dolorosa.

sorelle_macalusoUn coro d’amore che passa attraverso l’esperienza del lutto: l’amore familiare (tra le sorelle, tra figli e genitori), l’amore di coppia (il padre e la madre che danzano in un eterno amplesso), l’amore infine per se stessi, con imperfezioni, debolezze, superando i sensi di colpa e la rabbia che spesso accompagnano le storie personali di ciascuno.

Gina, Cetty, Maria, Katia, Lia, Pinuccia e Antonella morta qualche anno fa sono un prisma dell’anima stessa di quella sicilianità dolorosa e affaticata, dignitosa nel sacrificio, colorata e vitale come un giorno di sole e di mare, che resta il più salato ricordo, che diventa tragedia.

Il metalinguaggio di questo struggente spettacolo di Emma Dante ha evocato anche la caccia al pescespada: quel continuo richiamo al brano di Modugno (che con molta probabilità proprio sullo Stretto, a Ganzirri, ha fatto suo il racconto di un bislacco cantastorie locale) che racconta lo strazio del maschio pronto a morire per la sua femmina appena uccisa dall’arpione. Come il padre delle sorelle Macaluso “che gli mancava l’aria” senza sua moglie, che non resisteva al richiamo della figlia più piccola appena accennava “asseme a ttia vogghiu muriri”. Un padre accusato di essere assente, incapace di dare sostegno alle figlie, di “starci attento”. Un padre insultato e preso in giro, finchè il muro si rompe: appare la sua dimensione umana più profonda, quell’anima nuda e piegata alla vita indossata come una sottana, fragile e incapace di tanta responsabilità, un uomo costretto a vivere “nella merda” e che nella morte ritrova la pace e la gioia di quell’affetto perduto.

E ci sono anche “i pupi” nel linguaggio del corpo-scena che fa del teatro di Emma Dante un capolavoro di sicilianità, come lo è anche il richiamo ai Giganti pirandelliani nel convivio tra i vivi e i morti, perchè dov’è la morte: nell’assenza? …dov’è la vita? nella maschera di una addetta alle pulizie che solo da morta vedremo ballare nel tutù che avrebbe sempre desiderato indossare.

La memoria: grande e terribile protagonista di questo atto unico. Uno spazio dilatato, dove non esiste dimensione se non quella dei sentimenti che si fanno carne e ossa, sangue e respiro, sputo e danza.

 

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