La ricerca del senso del dolore nell’opera “I giorni del ritorno” di Antonio Blunda

Di Carmen Fasolo – Fin dalla giovane età mi sono chiesta chi fosse il poeta, di quale sensibilità fosse dotato e perché spesso soffrisse così tanto. Non saprei spiegare le ragioni per cui ero convinta che egli fosse capace prevalentemente di narrare, attraverso i versi, la pena che sentiva dentro l’animo. Non che io non avessi letto opere di impegno civile, inni alla gioia e componimenti con temi differenti da quelli introspettivi. Semplicemente, avevo creato durante la mia adolescenza un’immagine del poeta personalissima.

Oggi, che sono adulta, ho in parte modificato questa immagine.
Però, leggendo “I giorni del ritorno” (Ed. Smasher, 2018), l’opera poetica di Antonio Blunda, è come se io avessi sentito d’improvviso l’eco di quel dolore che provavo quando ero ragazza e leggevo poeti come Leopardi, Ungaretti, Montale, Hikmet, etc., giusto per citarne solo alcuni.

I versi di Blunda mi sono apparsi da subito struggenti; e mi hanno riportata ad una parola contenuta nel titolo: ritorno. Eppure si tratta di un ritorno che tale in realtà non sarà mai. Perché la guerra, la morte, il dolore e il lutto avranno sempre come risposta un silenzio tagliente, acuminante, che piega in due e raschia il fiato che rimane. Un punto di non ritorno, in altre parole.

Incontrare un poeta che può essere definito tale, che ci permette di respirare la poesia in questo modo è davvero cosa rara. Forse rarissima. Per questo e per altro dovrei ringraziare Antonio Blunda. Egli è riuscito a farmi entrare, in punta di piedi, in quella tempesta che sembra vivere dentro di sé, tra cui il dolore lacerente che l’assenza del padre gli provoca.

E qui non si tratta di guardare, forse spiare, dallo spioncino che permette allo sguardo di lanciarsi dentro l’animo di Blunda. Semmai, ritroviamo una poesia che accoglie, anche se lo fa con parole dure, forti, che rimandano spesso alla guerra, alle trincee, alle battaglie con gli altri e con se stessi. Sembra che la guerra sia intesa come una grande metafora capace di rappresentare il campo di battaglia della vita. Ma anche la sopravvivenza.

Quella di Antonio Blunda è una poesia che non intende insegnare, anche se alla fine ci racconta la durezza, la fragilità, l’assenza, il buio, quel laccio invisibile che ci tiene ancorati alla vita e alla famiglia che amiamo.

Perdere qualcuno che amiamo così tanto è come assistere al momento in cui una mano invisibile taglia, recide le nostre radici. Perdere quelle radici sembra voler dire perdere noi stessi e fare fatica a ritrovarci. Cosa diventiamo dopo il lutto? Cosa afferra la nostra gola e strozza il nostro respiro? Cosa, invece, ci impone di procedere verso la vita anche quando siamo tre passi verso il baratro?

Blunda non intende a tutti i costi rispondere a queste domande e forse preferisce non farlo definitivamente neanche con se stesso. Questa vita gli richiede amore, ma allo stesso tempo gli fa odiare scelte che non sono tali, imposizioni di accadimenti che addolorano e fanno sanguinare, anche senza far vedere il rosso e senza divenire subito cadavere. I vivi sono forse i morti che respirano ancora e i morti sono ciò che dei vivi resta. E non possiamo fare nulla, se non ovattare il rumore del dolore per renderlo muto davanti agli altri, imbavagliarlo porgendogli comunque il braccio.

In ogni passo poetico, accanto agli echi di altre poesie e di letture che senza dubbio hanno contribuito alla maturità del nostro Antonio, si sente il suo timbro, la cifra stilistica che è soltanto sua, di chi vorrebbe rimettere le cose a posto, sapendo però che ciò non è possibile.

Leggere I giorni del ritorno vuol dire, finalmente, leggere poesia. Ma anche, a mio modesto avviso, vita.

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