Femminicidio: la “tempesta emotiva” è un alibi per i vigliacchi

di Palmira Mancuso – Trovare le parole oggi non è semplice. Eppure ciascuno deve fare la propria parte, e la nostra è anche quella di dare forma ai pensieri di questo dolore collettivo per una vita spezzata crudelmente, nel giorno in cui donne e uomini di buon senso si chiedono in che misura questa nostra società contribuisca ad educare vittime ed assassini.

Ancora storditi per quel senso di impotenza che si prova dinanzi ad una violenza disumana, non riuscendo nemmeno ad immaginare quale demone interiore abbia armato i calci e pugni di Cristian Ioppolo, non possiamo che fermarci davanti alla morte di Alessandra Musarra, che oggi per tutti è diventata il simbolo di una lotta che va avanti.

Una lotta culturale, perchè la violenza di genere è soprattutto una questione culturale. E l’ultima sentenza contro la quale “Non una di meno” ha chiamato in piazza le donne italiane, mostra tutta la fragilità della giustizia che una società attenta ai più deboli assicura solo ai più forti. Il caso di Olga Matei, strangolata dal compagno per motivi di gelosia, inevitabilmente anticipa alcune riflessioni oggi più che mai all’ordine del giorno. Accettare infatti la “tempesta emotiva” quale causa sufficiente al dimezzamento della pena riconoscendo all’imputato una sorta di seminfermità mentale temporanea limitata all’evento dell’omicidio, vuol dire aprire un buco nero nell’immaginario di chi pensa che può esserci una giustificazione “emotiva”. Cioè tornare di fatto alla giungla, alla legge del più forte, agli istinti animaleschi. Secoli indietro rispetto a quei diritti e a quelle libertà frutto di lotte che hanno coinvolto tutti gli strati sociali.

Dalla gelosia ci si può curare, si può persino studiare come fenomeno, ma bisogna andare oltre la letteratura per conoscerla, riconoscerla e aiutare le vittime: e la psicoterapia può essere un antidoto quando la comunicazione tra le persone legate sentimentalmente si interrompe.

Ogni persona è unica e non possiamo oggi non interrogarci su quali strumenti usiamo per l’emancipazione di uomini e donne, per l’educazione sentimentale, per l’informazione sessuale, per cercare equilibrio tra corpo e spirito. Alcune sfere della natura umana le accantoniamo. Restano invisibili e indifese, magari a nutrirsi di luoghi comuni, di talk show, di serie tv: finchè certa violenza, certe delusioni, certi tradimenti non piombano nella vita reale. E non si è capaci di agire, se non per istinto.

Purtroppo siamo immersi nella violenza. Anche noi giornalisti l’abbiamo usata per entrare nella vita di Alessandra, per cercare nella sua pagina facebook un pezzo della sua storia, della sua personalità, per capire che semplicemente era una persona normale, che si truccava per sentirsi bella, che dedicava pensieri a se stessa e alle persona che amava, che aveva i problemi economici di molti, che in quel luogo che doveva essere la sua “tana”, la sua protezione, è stata sbranata.

E poi bisogna trovare un movente. Ed è qui che la giornalista si ferma. Parlare di gelosia non può giustificare alcun tipo di violenza. E non parleremo del caso specifico (perchè non solo le indagini sono in corso, ma è chiaro che l’assassino ha lucidamente cercato di sviare i poliziotti, forse sperando di scappare da una strada senza via d’uscita) ma diremo a gran voce che non possiamo uccidere due volte le vittime di violenza.

Delle donne uccise la gente vuole sapere “perchè”: come erano vestite, erano troppo allegre, provocavano, gli avevano fatto le corna?. Le sento tutte queste voci. Quelle del giudizio e del pregiudizio. Quelle che non servono a capire ma solo a sentirsi fuori pericolo adeguandosi ad una visione della donna che certa politica vuole restaurare. Quelle che continuano a uccidere ogni giorno la libertà.

Non bisogna essere femministe per urlare, ma femmine per darci la mano: insieme agli uomini che sanno starci accanto. Non dietro a farci sentire sicure, non davanti a indicarci una strada. Semplicemente a fianco.

 

 

 

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