L’UFFICIO: QUANDO IL TEATRO LAVORA DA DIO

 

Cosa accadrebbe se il Regno dei Cieli non fosse un’immensa distesa di soffici nuvole e cancelli dorati bensì un ufficio estremamente lineare, moderno e spoglio? E se Dio non fosse l’altero omone con la barba fluente e lo sguardo inquisitore, piuttosto un signore ben vestito, gioviale e compagnone?

Non ci sono nemmeno angeli con lunghe ali e spade fiammeggianti, i quali lasciano il posto ad un manipolo di impiegati svogliati e furbetti, ognuno con le competenze più disparate, mentre il mondo, all’inizio compenetrato in Dio stesso durante la creazione, oramai viene guardato attraverso un monitor, lontano lontano, quasi con indifferenza.

Ed è proprio in quest’indifferenza, pesante come una coltre, che Marcus, nuovo e ultimo arrivato, addetto all’ecologia, si ritrova. Ma invece di lasciarsi sopraffare egli usa la sua speranza e l’ animo idealista come un piede di porco per scardinare a poco a poco la disillusione e l’amarezza dei colleghi, donando loro nuova linfa vitale. Purtroppo Marcus si renderà conto che l’uomo è come un bambino capriccioso, al quale non si può impedire nemmeno con un miracolo di farsi male da solo. E’ passato un anno, e più che cambiare il mondo, è stato il mondo a cambiare Marcus, trasformandolo in un impiegato svogliato e furbetto, che guarda il mondo con amara indifferenza.

L’Ufficio, scritto da Giacomo Ciarrapico e Mattia Torre, è un testo che diverte, ma possiede la superba capacità di insinuarti qualcosa di spesso, di importante, che cresce ad ogni risata. Una critica sociale che si dipana attraverso questa semplice ma evocativa allegoria, un testo davvero teatrale, misurato, rigoroso, ma soprattutto intelligente. Del resto non ci si poteva aspettare niente di diverso da due degli autori della serie Boris, altro lavoro estremamente acuto e interessante.

Per quanto riguarda la messa in scena, finalmente un lavoro davvero teatrale, che di questi tempi non è poco, e che dimostra come la professionalità e la capacità di fare teatro ci siano a Messina, purchè se ne abbia davvero voglia. Il cast è quasi tutto messinese, e anche la regia, che porta la firma di Ninni Bruschetta, lo è.

Lo spettacolo risulta giocoso, vivo, e, cosa molto importante, a servizio della storia. Si canta e si balla bene, e questi momenti sono ben giustificati e ben inseriti all’interno dello spettacolo, facendo comprendere l’ampiezza delle possibilità che il palco offre.

Tra gli interpreti si distingue Giampiero Cicciò, che fa il mestiere dell’attore, ossia si cala nel personaggio rendendolo completo a trecentosessanta gradi.

Un paio di nei ovviamente ci sono, e nello specifico l’inizio, dove la proiezione del mondo si sovrappone ad un Dio che, come un direttore d’orchestra costruisce, crea, fino a venire sopraffatto dalla natura brutale del proprio stesso figlio: se fosse stato al cinema avrebbe funzionato maggiormente. Le immagini tagliate, per forza di cose, dalla cornice teatrale, costringono lo spettatore a rendersi conto della finzione scenica, fatta eccezione per la prima bellissima figura dello spazio, il quale perdeva i propri contorni nell’oscurità della sala. Ma capisco anche la difficoltà dovuta alla realizzazione dell’intera scena, ed è quindi un errore perdonabilissimo.

Il neo più pesante, se così vogliamo dire, è stata la mancanza dell’ascesa emotiva verso il culmine. O meglio, il culmine stesso si è perso, l’attimo prima in cui Marcus, di fronte ad un bivio, sceglie, volontariamente o meno, di prendere la strada che lo avrebbe conformato ai colleghi.

Rimane comunque, insieme a La Commedia di Orlando, e più di quest’ultimo, il lavoro migliore visto fin’ora in questa stagione teatrale.(RE CARLO)

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