STEFANO D’ARRIGO:IL LICANTROPO ED ALTRE POESIE INEDITE

 

Com’era lo Stefano D’Arrigo (1919-1992) giovane, trent’anni prima della pubblicazione dell’impressionante Horcynus Orca (1975)? L’elegante plaquette Il licantropo e altre prose inedite (Via del Vento, 36 pp., euro 4,00), curata da Siriana Sgavicchia, rivela i primi passi di un artista poco più che ventenne, fresco di laurea in Lettere, anticipando per bene la pubblicazione dell’Opera Omnia, a cura di Walter Pedullà, in uscita per Rizzoli. Nelle parole della curatrice: questo volume “consente non solo di arricchire di spunti l’interpretazione dell’opera maggiore alla luce di nuovi reperti, ma anche di apprezzare, già a partire dalle primissime prove, in porzioni ridotte ma di gusto molto raffinato, il talento di uno scrittore che merita di fare parte del canone letterario del Novecento, non solo italiano”. E merita d’essere assimilato, a quanto leggiamo in questo libretto, a quei narratori onirici e fantastici del nostro Novecento, i Buzzati, i Calvino, i Landolfi, i Pazzi, che hanno saputo disorientare e stupire i lettori con le loro invenzioni.

Entriamo nel vivo dell’opera. Il primo frammento, “Due scene”, pubblicato il 15 aprile 1942 sul mensile universitario palermitano “L’appello”, è un breve dialogo teatrale di stampo espressionista. Un uomo e una donna parlano dell’amore e della morte, in una stanza minimalista, beckettiana; si finisce giocando a calpestare la luna, camminando sul marciapiedi come fossero il cielo: fingendo d’essere angeli. Pensando che l’unica distinzione tra esseri umani sarà la morte: nella morte verranno stabilite differenze oggi invisibili.

 

Il secondo pezzo, “Lettere come memoria a Michele”, pubblicato il 14 ottobre 1942 sul quotidiano palermitano “L’Ora della Sera”, è un racconto esistenziale in forma epistolare. Marocchino scrive al suo amico raccontandogli del suo stato d’animo in quel momento difficile; sogna di cadere in una “dolce follia”, d’andare sul dorso d’un ippogrifo ad agitare il vento, tra le gonne delle ragazze; vuole andarsene dalla Sicilia, cosciente che già durante la traversata l’isola “incomincerà a farmi rivoluzione queta queta dentro e sarà mio profondo accoramento la terrabruciata coi fichidindia e le città che si aprono e si chiudono come bandiere”. Gli amori non lo consolano, si sente schiavo della malinconia, come se non avesse mai superato l’angosciosa coscienza della possibilità della morte. A tenerlo vivo in quella transizione è la memoria delle piccole cose condivise con Michele.

 

Il racconto eponimo, “Il licantropo”, pubblicato l’8 ottobre 1946 sul quotidiano romano “La tribuna del popolo”, è un ritorno sulle tracce del Pirandello di “Male di Luna”. È un frammento che sarebbe piaciuto a Tommaso Landolfi, ché si tratta di una stravaganza gotico-iniziatica, fondata sulla trasfigurazione della drammatica autodistruzione d’un amico: in quell’istante, scrive D’Arrigo, “capimmo che lì finiva la nostra giovinezza e che la nostra vita s’era d’un tratto inconcepibilmente cresciuta di gravezza presso quei misteriosi confini”.

 

Il quarto e ultimo frammento. “A Taormina con la nonna”, apparso sul mensile bolognese “Il Progresso d’Italia” nel luglio 1948, è una pagina pseudo-diaristica, tratta dal diario di un “ragazzo fantastico”. È un meraviglioso omaggio alle terre dell’artista, alla sua Alì Marina, a metà strada tra Messina e Taormina, paese di “lune marocchine e di licantropi, di battitori di olive e di piccoli pescatori dal viso itterico”, e alle sue fantasie di bambino per la Taormina raccontata come favola dalla nonna, che pure non l’aveva mai visitata; analfabeta piena di fantasia e di creatività, inventava cose piccole e commoventi come un sole sempre propizio e mai cruento, come lettere recapitate in men che non si dica dalla lontana America, piene di dollari, e tanto buon pane bianco da mangiare. E così il “ragazzo fantastico” cresceva nel sogno d’un eden a portata di mano, e tuttavia irraggiungibile; un’utopia da carezzare in qualsiasi momento, superbo antidoto alle sofferenze dei figli del popolo, viatico unico al senso supremo della creazione artistica: ideare e plasmare un mondo nuovo, libero, estraneo alla morte, estraneo al male. (GIANFRANCO FRANCHI)

 

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Stefano D’Arrigo (Alì Marina, Messina 1919 – Roma, 1992), scrittore, giornalista e critico d’arte italiano. Si laureò in Lettere a Messina con una tesi su Holderlin. Esordì pubblicando la raccolta di poesie “Codice siciliano” per Scheiwiller nel 1957.

Stefano D’Arrigo, “Il licantropo”, Via del Vento, Pistoia 2010. A cura di Siriana Sgavicchia.

Prima edizione: Inedito in volume.

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