CAMAIONI RECENSISCE PISPISA: “VOI NON SIETE QUI” E’ UN PUGNO ALLO STOMACO

Voi non siete qui – ultima fatica letteraria di Guglielmo Pispisa, edita da ilSaggiatore – non è un libro, è un pugno allo stomaco. E non soltanto per chi, come il protagonista Walter Chiari, appartiene alla generazione infausta che ha fatto sesso la prima volta che era in piedi il muro di Berlino; e non soltanto per chi, messinese come lui, sa bene cosa significhi vivere in una città che non esiste, un non-luogo di transito, un passaggio fatto d’acqua, non una città.

Lo senti già dalle prime pagine, quando Walter racconta dei suoi trascorsi universitari alla facoltà di Giurisprudenza: “Ho buttato sei anni della mia vita – della parte migliore della mia vita, avevo vent’anni. Li ho passati in un limbo di semicoscienza, come se vivessi a marce ridotte, senza provare sapori né vedere colori, perché tutto era subordinato a quell’onnipresente studio che mi fotteva l’esistenza”.

Lasciata alle spalle la cerebralità tumultuosa del Cristo ricaricabile, Pispisa adesso guarda negli occhi il suo lettore, e con una forza espressiva straordinaria – con eleganza ma senza mezzi termini – gli snocciola senza pietà le verità che un uomo a quarant’anni si ritrova davanti, al di là della linea degli addendi, tirando le somme.

L’effetto è fortissimo: parafrasando le sue stesse parole, non è (sol)tanto ciò che Pispisa dice, ma è come lo dice, che lo rende straordinario. In primo luogo, perché con grandissimo coraggio Guglielmo fa spallucce alle regole del gioco, e se ne infischia dei due-tre generi abusati delle hit in libreria, scegliendo la strada in salita (una storia minimal, una realtà di provincia, volando raso sul rischio autobiografia) per scrivere il suo capolavoro (con sorniona modestia, dirà poi, ‘scelta dettata da ragioni di tempo’).

Si racconta a focalizzazione zero, ma lo fa col grandangolo del narratore onniscente. E in barba alla macchina da presa del nuovo realismo – che usa da maestro per l’intero romanzo – sfacciatamente spiega, giudica, racconta. Si diverte a stravolgere persino il sistema proppiano dei personaggi: trasforma aiutanti in rivali e viceversa, ribalta continuamente il chi-sta-con-chi, scambiando i ruoli attanziali dei personaggi sotto gli occhi destabilizzati – e per questo divertiti – del lettore.

Ma è in realtà la struttura interna del libro, il cesello delle parole, l’esatta coerenza che lo anima, e il singolare registro linguistico (una scrittura confidenziale ma che non dà confidenza, uno stile introspettivo ma beffardo, esplicito ma non volgare, colloquiale e ricercato al contempo) a fare la differenza, costituendo una svolta netta e uno sperimentalismo audace che stacca l’ultimo nato dai suoi tre fratelli più anziani (Città perfetta, La terza metà, Il Cristo ricaricabile). Ed è il registro doppio verità-menzogna il motore immobile del romanzo: “è tutto vero, tutto falso, non so”, dice Walter Chiari a se stesso, chiusa una telefonata con la moglie. Ogni cosa, per tutta la durata della narrazione, è al contempo se stessa e il suo contrario, e crea quel doppio psichedelico che scatena l’effetto perturbante, il pugno allo stomaco.

Vero e falso, quindi, sono i veri protagonisti, la trama e l’ordito del romanzo, attorno ai quali Pispisa annoda i fili colorati della storia: Walter Chiari, condannato già nel nome ad essere un doppio ridicolo del divo più famoso, conduce la vita piatta e senza scossoni di un avvocatuccio di periferia: moglie figlio e mutuo, classe ’71 o giù di lì. Di quelli che “studia, fai il bravo, e attento a non sudare”, figlio di buona borghesia, genitori modello, gente perbene di un tempo che fu. Niente fuoriprogramma, casa-lavoro-asilo, tutto accade ma nulla cambia. Ma è già sottopelle l’ansia del nuovo, è nell’insonnia e nel Roipnol onnipresente a sedarla il binomio che tradisce una vitalità bramosa di erompere (Anche se oggi mi piacerebbe non pensare, staccare la spina. Se continuo così finirò risucchiato dai miei gorghi mentali, e invece vorrei prendere l’auto e Letizia ed Emanuele e guidare su per i colli e fuggire, tornante dopo tornante, dall’umido appiccicoso di questo tempo infame).

Un magma incandescente che cova sotto strati di bonomia equilibrata, veicolato da una narrazione rassicurante, che ha però in sé il germe dell’annunciato terrore: il perturbante che nasce dall’ordinario, la seraficità della scena che cela il delitto, e prelude all’urlo improvviso.

Ed arriva dopo poche pagine l’evento che mette in moto gli eventi, che toglie la polvere dai fascicoli annoiati sulla scrivania di Walter: un licenziamento inatteso, un evento importante eppure mai comunicato alla moglie, vissuto quasi come una scossa tellurica con epicentro profondo, di quelle a cui i messinesi sono abituati, quelle che ci sono sempre ma nessuno se ne accorge, e quindi non esistono. E così, con l’alibi di chi non può scegliere (Metti che riesco a fare anche 500, 600 al mese – e non ci riesco – dove devo andare?) Walter smette di dire no, e comincia a dire sì a tutto ciò a cui la sua etica, fino a quel momento, aveva detto no: e si tuffa con eleganza e senza fare schizzi, ma con pirandelliano sberleffo, in quel jetset patinato che lo attrae ma lo ripugna, che sembra gestibile ma finirà per travolgerlo.

Ed è proprio l’ironia dissacrante, in ossimoro col suo essere talmente vanitoso da non voler apparire vanitoso, la caratteristica che rende Walter Chiari simpatico al suo lettore; tuttavia, dissacrare le regole lo aiuta a sopravvivere, ma finisce per scavare il solco della sua non-appartenenza: al suo ruolo di padre (suo figlio gli chiede Ben10, lui gli compra Tin Tin), al suo matrimonio ormai tiepido, ad una relazione extraconiugale giocata di rimessa, e non ultimo al suo lavoro: a differenza di certi squali suoi colleghi, Chiari fa l’avvocato, ma non lo è.

In un mondo dove tutto è finto e artefatto, dove le polpette di neonata diventano tempura di maiatica, quattro rustici mignon sublimano in finger food dello Stretto, e indigesti involtini di spatola diventano per magia sashimi vaporizzato di pesce sciabola, il tutto stampato su menu di tessuto non tessuto, per l’appunto, fasullo quanto l’apparente annoiata rassegnazione all’evento mondano ostentata dagli astanti, perché la soddisfazione non sta bene darla a vedere.

Non scambiare la bellezza per innocenza, ammonisce il narratore: gli addominali scolpiti nascondono interiora. Allo stesso modo, una Messina marcia e massona si nasconde dietro una inaspettata proposta di lavoro, una donna fragile e frustrata convive nei panni di una zoccola che ti scopa in strada, e persino una escort moscovita fa sorgere il dubbio di non essere ciò che appare.

Anche il finale, assolutamente inaspettato ed imprevedibile, lascerà di sale il lettore, chiudendo magicamente il cerchio degli eventi, veri come la finzione. Voi siete morti, io sono vivo, dice Pispisa -Chiari, affidando alle ultime righe la morale nascosta del romanzo.

Perché è meglio morire sparati, invece di morire di noia, in un’epoca della crisi in cui fingere di essere liberi è quanto ci possiamo permettere. (ELIANA CAMAIONI)

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