Sicilia: il ricatto dell’acqua nell’isola che ignora l’esito del referendum

«La Regione, ai sensi dell’articolo 14 dello Statuto, considera l’acqua bene comune pubblico non assoggettabile a finalità lucrative quale patrimonio da tutelare, in quanto risorsa pubblica limitata, essenziale ed insostituibile per la vita e per la comunità, di alto valore ambientale, culturale e sociale».

Così recita la legge regionale n. 19 approvata nell’agosto 2015 dal Parlamento Siciliano, giunta in sede di discussione tre anni dopo un referendum, quello del 2011, in cui il 95% degli italiani si è dichiarato contrario alla privatizzazione dell’acqua, privatizzazione che però, di fatto, permane tutt’oggi.acqua_manifestazione_fermovideoAdn-400x300

Nell’ottobre 2015 il governo nazionale decide di impugnare la legge poiché reputa che «numerose disposizioni contrastino con le norme statali di riforma economico sociale in materia di tutela della concorrenza e di tutela dell’ambiente, spesso di derivazione comunitaria, eccedendo in tal modo dai limiti posti alle competenze regionali». L’impugnativa del governo nazionale, è bene precisarlo, non blocca l’iter di una legge approvata dall’Ars. Il governo regionale, guidato da Rosario Crocetta, si è trovato quindi a dover scegliere tra presentare ricorso alla Corte Costituzionale o pubblicare la legge sulla Gazzetta Ufficiale con le parti impugnate. Crocetta decide, invece, di assecondare le volontà di Palazzo Chigi, mettendo da parte il parere espresso dai siciliani con il referendum del 2011 e lasciando, di fatto, ai privati la gestione dell’acqua nell’intera isola.

crocettaL’assessore Contrafatto difende il suo operato affermando: «L’acqua in Sicilia è e rimarrà pubblica e la legge approvata dall’Ars, sia pure impugnata, resta in vigore, tanto che ho firmato il decreto di delimitazione degli ambiti territoriali. Quindi resistere all’impugnativa, sul piano pratico, non avrebbe avuto alcun effetto». Invece, secondo Giampiero Trizzino, ex presidente cinquestelle della commissione Ambiente che ha coordinato i lavori della riforma con Valentina Palmeri «finisce il sogno dell’acqua pubblica in Sicilia. È un fatto di una gravità inaudita. Si vanificano così anni di lavoro e si mortificano le aspirazioni dei cittadini che col referendum avevano dato un’indicazione inequivocabile. Ancora una volta calpestate le aspirazioni dei siciliani».

Gli articoli legislativi che avrebbero potuto far abbassare le tariffe dell’acqua in Sicilia sono stati cassati, così come quelli che avrebbero ridato potere ai Comuni, lasciando l’Isola nella condizione tristemente conosciuta a tutti. La gestione privata dell’acqua non ha portato alcun brillante risultato: ne sono un esempio le ripetute crisi idriche messinesi durante le quali i cittadini sono stati lasciati senza acqua anche per venti giorni; il caso della provincia di Caltanissetta dove la Procura ha svolto un’inchiesta, Acqua pulita, in cui sono stati denunciati valori altamente inquinanti nelle acque dei torrenti. O ancora, le tariffe raddoppiate rispetto ai comuni in cui è presente la gestione pubblica del servizio, o la situazione dell’Ato di Siracusa, finita all’interno di un’inchiesta per estorsione.

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Attorno a tutto questo disordine ruota un vortice di interessi internazionali che premono sulle società private che gestiscono il servizio idrico. Siciliacque è una società partecipata al 25% dalla Regione e per il restante 75% di proprietà di Idrosicilia Spa, a sua volta composta dal colosso francese Veolia Water St (59,6%), da Enel (40%) e da Emit (0,1%). Siciliacque ha con la regione Sicilia un contratto 40ennale, stipulato nel 2004 durante il governo Cuffaro, con il quale tutte le infrastrutture idriche le vengono concesse in comodato d’uso gratuito. Sostanzialmente la Sicilia ha ceduto gratuitamente le proprie infrastrutture idriche e l’acqua di tutti i cittadini a un privato per farsela poi rivendere e se per caso volesse rescindere il contratto dovrebbe comunque pagare alla società i 160 milioni di investimenti già effettuati. Siciliacque è proprietaria di 1800 chilometri di rete, 13 acquedotti, 6 invasi, 5 mega-potabilizzatori e un dissalatore, per un totale di circa 90 milioni di metri cubi di acqua potabile. Tra i 13 acquedotti della società c’è anche quello dell’Alcantara, il cui costo gravava sulle casse comunali messinesi – prima che l’Amam decidesse di rescindere il contratto – per 69 centesimi al metro cubo, cifra circa sei volte maggiore rispetto quella pagata per attingere all’acqua del Fiumefreddo”.

@EleonoraCurrò

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