Girolamo Cotroneo e la “filosofia della sostanza” de “Le Virtù Minori”

In occasione della scomparsa del filosofo Girolamo Cotroneo, pubblichiamo su cortese concessione di Giuseppe Campione che l’ha redatta, una intensa presentazione di uno degli ultimi testi dell’emerito professore, Le Virtù Minori del 2014 edito da Rubettino – Solo se riusciamo a superare quell’assenza di pensiero, alla cui fenomenologia si riferiva la Arendt, che sostanzia l’incapacità di vedere la differenza tra il bene e il male, la distinzione tra il giusto e l’ingiusto che si può declinare anche come una deficienza del sentire che ci impedisce di volere. Ed è solo allora che possiamo sperare di immergerci a fondo, con un “nostro esercizio di pensiero” nell’affascinante percorso tra le infinite cose che stanno fra la terra e il cielo. In quel percorso che, spiega Roberta De Monticelli nei suoi Esercizi per apprendisti filosofi, per aiutarci a statuire “che cosa è bene e che cosa è male”, quali le qualità e il valore delle cose, ci indurrà ad accostarci ad un parlare razionalmente, …anche con un uso responsabile del linguaggio. E dio sa ( e mai come questa volta Dio non lo nominiamo invano) quanto di tutto questo si senta, nel tempo che ci è dato da vivere, necessità e bisogno. Prendiamo ad esempio quanto ne dice Umberto Eco in una recente sua “bustina di Minerva”.

Nel suo curioso e costante peregrinare tra le “vertigini” di senso dei nostri stili di vita, modi di sentire, atteggiamenti, comportamenti, Eco si riporta agli innumerevoli, diffusissimi festival letterari, storici, soprattutto filosofici, che anno dopo anno, invadono il paese. Festival pensati da Società scientifiche, Istituzioni – ma anche da Fondazioni alla ricerca di automotivare specificità ed ubi consistam-  in località di forte e sofisticato richiamo: eventi sollecitanti (anche solleticanti), tra il culturale e lo snob, per annoiati villeggianti estivi. Il fatto da decodificare dice Eco, è che “migliaia e migliaia di persone, per ciascuna città (che in certi luoghi pagano, in altri entrano gratis, ma in ogni caso vengono da fuori e sostengono le spese di viaggio, permanenza e ristoranti) si muovono per seguire discorsi e discussioni che un tempo parevano limitate alle aule universitarie. Non si tratta quindi di quattro fanatici o di quattro snob: tutti insieme fanno folla”. Appunto trattandosi di migliaia e migliaia di persone, c’è da dire che, al di là della nostra rassegnata malinconia, troppo spesso compagna dell’anima, rinvigorita da superbo, quindi confortevole, pessimismo, siamo in presenza di moltissimi che, “vogliono sentirsi coinvolgere in esperienze nutritive” -è Eco che scrive- e che per questo vogliono parlarne, vogliono “incontrare persone in carne ed ossa”. Moltissimi a cui non basta la ritualità preconfezionata, plastificata, da ‘società dello spettacolo’ alla maniera di Guy Debord, ma che invece avvertono una necessità di comunicazione che realmente comunichi, “un bisogno profondo di contatti faccia a faccia, di vicinanze fisiche”, di spettacolo che non sia solo un “insieme di immagini”, un “abuso di un mondo visivo”, ma invece “un rapporto tra, mediato da immagini”. In qualche caso potrà esserci -perché no- anche del sofisticato bovarismo intellettuale, ma quello che qui conta è che al di là del nostro essere spettatori, indifferenti o più o meno angosciati, di un ineluttabile naufragio, senza saperlo invece stiamo vivendo un tempo in cui moltissimi sono lì alla ricerca di consapevolezza, carichi di perché, di possibili risposte, anche difficili, e appunto per questo vogliono vedere, e per di più ascoltandolo, un filosofo, uno storico, un narratore, un poeta, vogliono essere aiutati a capire, vogliono ascoltare parole vere che significhino verità accessibili, luce, aiuto, stimolo, risveglio al loro pensare, troppo spesso manipolato, frastornato, schiacciato, passivizzato… significhino nuova, laica possibilità di ingresso nella complessità del vivere, cogliendo anche il senso del “ci sono più cose in terra e in cielo, di quante ne sogni la nostra filosofia”. Di qualcosa che ci trascende e che dobbiamo comunque cercare di riprendere dentro di noi, senza farci superare passivamente…

In altre parole abbiamo bisogno in molti di incontrarci con qualcuno con cui scambiare pensieri, che ci insegni a pensare e a sentire. Bene, allora stiamo entrando nell’ aureo libretto di un filosofo, Girolamo Cotroneo: – Le virtù minori, Rubbettino edit. 2014-, che, come diceva Hegel di Spinoza, si muove sempre in una “filosofia della sostanza”. E posso dirlo anch’io, nonostante sia solo un incompiuto lettore della montagna di scritti prodotti da Cotroneo in oltre mezzo secolo di studio e pensiero. Filosofia della sostanza perché “tutti gli oggetti, se trattati con metodi adeguati, possono diventare filosofici”, come rispondeva alla domanda su quale fosse l’oggetto della filosofia il suo maestro Raffaello Franchini.

E proprio per questo i concetti che si discutono in questo libro sono anche concetti dell’etica, della psicologia, della politologia. Cotroneo infatti da storico della filosofia ha sempre cercato di conoscere, soprattutto nel segno della discontinuità, quello che i grandi filosofi hanno detto su questi concetti. Norberto Bobbio, e qui possiamo pensare che forse sarebbe stato possibile che parlasse anche di lui – se fossero coincisi i tempi- come di un modello di filosofo “anomalo” , rispetto ad un certo andazzo che gli faceva scrivere, in modo insolitamente polemico, nel lontano 64 a un amico filosofo, emerito a Stoccolma, che : “…i filosofi italiani hanno fretta: arrivano subito alle vette, e una volta arrampicati sulla cima non scendono più. Siccome le alte cime sono spesso avvolte di nuvole, non vedono più nulla del mondo sottostante. Ma continuano a parlare”.

E per cogliere pienamente il senso dell’attributo “anomalo”  è necessario aggiungere che spesso Bobbio e Cotroneo si “corrispondevano”, come avrebbe potuto dire Ungaretti che usa quel corrispondere –in una delle sue poesie più intense- come un trasferire sentire, condivisione, stima, amicizia.  E quindi poteva starci tutto quel definirlo anomalo. Perché no, anche in virtù dello <spinozieren> che Hegel aveva aggiunto alla definizione di “filosofo della sostanza: “Filosofare è spinozzare”. Infatti, more philosophico, la riflessione di Cotroneo indaga all’interno della cultura filosofica “…cercando di conoscere che cosa i grandi filosofi avevano detto” intorno alle sue riflessioni di questo libro, ricostruendo, anche sotto il segno della discontinuità, quei percorsi, con riscontri testuali. Con l’idea di Croce, suo grande riferimento, ad esempio, che scrivere di storia e quindi di storia della filosofia non può che nascere “da un atto di comprensione e d’intelligenza, stimolato da un bisogno di vita pratica”; che è poi quanto “conferisce a ogni storia il carattere di <storia contemporanea> .

Ma perché, ci chiediamo, nel titolo si dice di virtù minori? Cotroneo spiega sin dall’ introduzione che queste virtù, pur essenziali, non hanno la forza “delle due grandi categorie etico-politiche, la libertà e la giustizia, su cui abbiamo costruito la nostra civiltà, ma neppure delle grandi virtù platoniche – prudenza, giustizia, fortezza, temperanza – accolte anche dalla dottrina cristiana con il nome di virtù cardinali; per non dire di quelle ‘teologali’, una delle quali però – la carità- è qui presente come uno degli aspetti e momenti dell’altruismo”.

Ma minori non vuol dire piccole: soprattutto non servono a far dimenticare le grandi. Sono, dice Cotroneo, comunque importanti, decisive, e spesso, “nel bene o nel male, determinano le nostre azioni”. Per altro il nostro filosofo aggiunge che non tutti i comportamenti analizzati sono tout court virtù: senz’altro lo sono l’altruismo e il perdono, mentre sugli altri –vergogna, invidia, emulazione, menzogna (anche se nell’ambito ristretto della politica), autorità, libertà- occorreranno precisazioni e per alcune addirittura giustificazioni.

Quello che accomuna questi concetti, ognuno dei quali meriterebbe almeno una monografia, se non un festival come nella bustina di Eco, è il “metodo con cui sono stati studiati e proposti” e “il fatto di essere ognuno un momento importante…nella nostra cultura e vita morale”. Appunto le virtù, “maggiori o minori che siano, hanno soprattutto un valore etico”. E nei capitoli che si susseguono questi concetti, uno dopo l’altro, vengono definiti in itinere, nella storia del loro essere riconosciuti come importanti, viene di ciascuno colto “il profumo dell’epoca” così come percepito e analizzato nei “posti di osservazione”, negli scenari prima abbozzati, poi accettati e realizzati, come scrive Giovanni Macchia nell’introduzione della sua antologia su “I moralisti classici”.

Ma il realizzarsi non sarà mai, nel nostro caso, fatto compiuto del tutto, resterà invece aperto alle vicende e alle culture dei tempi. In fondo, in modi diversi, come le geografie, in sostanza saranno sempre scritte dalla storia, cosi nel procedere di antropologie, culture, e filosofie che le determinano, sarà sempre il tempo che ne orienterà gli svolgimenti. L’ etica del sapere è l’ etica della vita, dei perché. Per questo in questo Virtù minori è come se avvertissimo la necessità di interrogarci anche sulle nostre geografie del vissuto dove prassi e comportamenti, modi di produzione, regole e poteri, esigono e disegnano filosofia tout court. Lo spazio di una recensione per riuscire a descrivere quest’opera in tutta la sua lucida complessità attraverso un’analisi critica, dando cioè un giudizio sul valore e discutendone le posizioni,  non solo sarebbe insufficiente e certamente esigerebbe competenze ben altre. Forse anche qui potrebbe valere il paradosso di Borges che a Pierre Menard, interamente coinvolto dal don Chisciotte, fa ricopiare tutto, fa riscrivere parola per parola l’intero testo nella impossibilità di ri-rappresentarlo in tutte le sue significazioni. Invece, senza purtroppo un Borges alle spalle, ci ho provato cercando di aggirare l’ostacolo, muovendomi cioè più sul piano della presentazione che della recensione -la differenza è sostanziale- da lettore non laureato, da dilettante. Ma poi perché non ricordare Calvero, l’umanissimo clown di Chaplin che in Limelight filosofava dicendo:…è che viviamo troppo poco per non essere che dilettanti…?

Prendiamo ad esempio la riflessione sull’autorità. Spinoza, nel 1670, scriveva che la sola autorità non poteva derivare dalla legge, cioè da qualcosa che avesse legittimità…, subordinando così il potere religioso a quello politico, abbattendo in sostanza un pregiudizio teologico. Spinoza “chiedeva all’uomo di aprire gli occhi e di camminare con le proprie gambe” … con questo avrebbe prodotto scandalo e “sollevato l’odio del grande torpore umano… “per l’audacia prometeica di un uomo che voleva non affidarsi a grazie e a favori speciali, portando la logica nel campo riservato alla fede”, che sgombrava il campo della teologia dai pregiudizi che la viziavano, commentava René Daumal, scrittore e filosofo francese, ricercatore nei suoi anni giovanili, gli anni ’30, con Simone Weil. Ma non sarebbe stata poi la stessa Weil a parlare del necessitato silenzio di Dio? Non avrebbe detto infatti che “Dio non poteva creare se non nascondendosi, altrimenti non avrebbe potuto esistere che Dio solo?” In altre parole: un Dio coerente con la sua creazione dell’uomo non avrebbe potuto renderlo inesistente. Il libero pensiero non trovava spazio cioè nelle chiese ma non in dio.

E Messori riporta così un pensiero della Weil : “Forse Dio ha lasciato intravedere se stesso solo quanto basta…perché l’uomo non sia abbagliato dal cielo al punto di disinteressarsi della terra”. E questo problema di autorità-libertà, anche nel suo determinare modi di religiosità sarà sempre centrale. E lo sarà anche dopo 4 secoli da Spinoza riapparirà, dopo numerosissime teorizzazioni sul tema, da Horkheimer a Hobbes a Vico, da Cartesio a Kant, a Hegel e poi, tra gli altri, alla Arendt, a Gadamer.

A più di 4 secoli dall’uso “consapevole che gli uomini hanno fatto della loro libertà e della loro ragione per controllare quegli istinti che fanno l’uomo lupo all’uomo”, dopo la prima forma di autorità che è stata la religione. Dirà Vico che da quando: “…gli uomini…incominciarono a celebrare la libertà dell’umano arbitrio di tener in freno i moti dei corpi…” E Cotroneo parte proprio, in questa enorme ricognizione che ci porterà alla tesi dell’autorità “da negare, da uno dei filosofi più noti della seconda metà del ‘900, Foucault. “… abbiamo bisogno di una filosofia politica costruita intorno al problema della sovranità, della legge: dobbiamo tagliare la testa al re..” avrebbe scritto Foucault. Ci parlerà della prima volta di quando  addirittura con Hegel  “la libertà si arrende alla sicurezza” quasi a confermare il proverbio di Salomone : “Il timore del Signore è l’inizio della sapienza” . Ma, aggiungerà:  il timor domini trasformerà nel tempo la coscienza civile…e così verrà sorgendo “una coscienza che pensa o che è autocoscienza libera”.

Ma, dirà la Arendt, moltissimo tempo dopo: “Poiché esige  l’obbedienza, l’autorità viene di solito scambiata con un modo di esercitare il potere o la violenza”. E Cotroneo riandrà anche a Eschenburg che si riferisce alla potestas e al rapporto di subordinazione e  alla dipendenza, come interiormente accettata, caso per caso. Poi ancora ad Hegel che si riferisce ad altra fonte di autorità su cui la cultura dell’occidente ha lungamente indugiato. “… la tradizione, che Hegel vedeva non come una statua immobile, ma come qualcosa che <vive e rampolla come un fiume impetuoso che tanto più s’ingrossa quanto più si allontana dalla sua origine…come un santuario su cui gli uomini di ogni stirpe …hanno appeso ciò che li aiutati nella vita>.

Una tradizione dalla quale non vogliono distaccarsi, che non vogliono tradire. E a Gadamer che  si chiede se sia proprio vero che stare dentro a delle tradizioni significhi sottostare a pregiudizi e a subire una limitazione di libertà. E poi conclude che invece “ la libertà è sempre un momento della libertà e della storia stessa… perché non si sviluppa naturalmente…ha bisogno di essere accettata, adottata, coltivata”.

E allora dice Cotroneo concludendo questa riflessione: la polemica avviata nel secolo scorso…aveva le sue radici e trovava le sue giustificazioni nel fatto che nel novecento è apparso quel pensiero totalitario che pretendeva riconoscimento attraverso le ragioni della forza, non in maniera spontanea, non attraverso la forza della ragione. E quando non si comprendono le ragioni, quando ci rifiuta di capirle, con la ragione dormiente, ecco che “Il sonno della ragione genera i mostri”. Questo l’approccio al tema dell’autorità, approfondito come esempio di lettura e studio.

Gli altri temi, dalla menzogna in politica, al perdono, all’altruismo ecc. li lascio ai lettori che spero di aver incuriosito ed eccitato penetrando nella filosofia delle virtù minori come elaborata con sapiente cura da Girolamo Cotroneo. Io ho provato a scriverne convinto che sia possibile riaccendere fuochi di sapere, cioè passione di indagare e curiosità di capire. Interrompendo il sonno della ragione, se per alcuni si è addormentata.

Parlare assieme di questo libro ha trovato senso se, a partire da chi scrive, si ricaveranno stimoli per pensare, per studiare, per ri-alfabetizzarci sul senso di una storia che è l’insieme delle vicende, dei pensieri che in quelle (o per quelle) sono maturati, ma soprattutto se riapriranno finestre e luci sul tempo che ci è stato dato da vivere.Lo spazio di quel complesso e articolato insieme che è il passato è anche la porta attraverso cui possono veicolarsi  prospettive teoriche di un futuro possibile, quindi, nonostante tutto, fattibile, come ci spiega Cotroneo.

 

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