In libreria il nuovo romanzo dello scrittore messinese Mimmo Rando

«Al Faro non avevo voglia di tornare più. Vi tornai solo quando mio padre morì. Sembrava non me ne fossi mai andato. Solo mio padre non c’era. Al suo posto, in quella casa immutata, una foto al centro della toletta con un lumino acceso da poco. E tutti i fantasmi che giravano per le stanze. Erano le forze della terra e del mare. Divinità ancestrali. Invisibili abitatori di un mondo di mezzo. Potenti forze divine che si manifestavano attraverso i simboli».  Prende da qui le mosse il viaggio, inteso come nostòs, del narratore verso un mondo illuminato dalla presenza di personaggi che vissero lungo le coste estreme del Peloro. Stravaganti, eccentrici, a volte teatrali e spassosi, emblematici nella loro elementare saggezza, prestati alle incertezze della vita e alle fantasie degli scritti, che pare vogliano rammentare, come Eraclito, che le cose sono e al tempo stesso non sono.

Parlano di avventure di mare, di donne, di miserie e di splendori. E che siano racconti dolcissimi e struggenti (Ortega e la madre); o irriverenti ed erotici (la suora delle pulizie che si lasciava toccare per consolare «quelli assetati… sciorbi… allammicati…»); o divertenti e comici (Angelino che per lasciarsi tagliare i capelli doveva infilare il dito nel culo della capra) la sensazione è sempre che l’unica via d’uscita, da un mondo che tende a rattrappirsi e a chiudersi in sé, la si possa trovare in una vita semplice. Un libro nuovo, profondo e leggero, misterioso e solare, reale e fiabesco.

Mimmo Rando nato a Messina nel 1945, ha esordito con “Omero al Faro” (Rubbettino 2016), finalista ai premi “Berto”, “Vincenzo Padula” e “Asti d’Appello”.  Oltre a questo suo scrivere in perenne sperimentazione, si dedica alla pittura e al violino, rimandando attraverso l’arte l’essenza del Sud e delle sue mutazioni. Profondamente meridionale, rigetta l’idea di una letteratura riferibile alla Sicilia. «Non credo che esista una letteratura siciliana. Non credo che gli autori siciliani, tali solo per anagrafe, abbiano mai avuto in mente di esprimere una letteratura siciliana. Pirandello, Verga, Sciascia, D’Arrigo, Consolo, Bufalino, Maraini scrivevano con lo sguardo rivolto altrove. Ho letto e amato gli autori appena citati. Aggiungerei i poeti della Scuola Poetica siciliana, uno dei quali inventò il sonetto. In più Lucio Piccolo, Cattafi, Quasimodo, Emilio Isgrò e altri. La letteratura più vicina al mio sentire, questo sì. Mi piace però ricordare pure due poeti calabresi a cui sono affezionato, Galeazzo di Tarsia e Lorenzo Calogero.  Io racconto una Sicilia che forse esisteva nella mia fanciullezza ma che non c’è più. Con la progressiva omologazione di questi anni alcune caratteristiche anche ambientali della Sicilia sono andate perse. Sono rimasti solo la retorica e lo stereotipo. Non ho un concetto chiaro e soddisfacente della Sicilia e dei siciliani. Ho solo in mente una costruzione di fantasia».

Partecipa alla discussione. Commenta l'articolo su Messinaora.it