VIA CASTELLANA BANDIERA, IL CASSATA WESTERN DI EMMA DANTE

Esordio cinematografico della celebre autrice e regista teatrale palermitana, Via Castellana Bandiera è uscito nelle sale italiane ieri, con una settimana di ritardo rispetto all’anteprima riservata alla città di Palermo, fonte, origine e ispirazione profonda per Emma Dante, che vi ambienta anche il romanzo da cui è tratto il film.

Il capoluogo è protagonista assoluto della pellicola, non in senso estetico, artistico e immobile, come Roma era omaggiata da Sorrentino nella sua “grande bellezza” , ma nella sua essenza genetica, nucleo attorno a cui si plasmano e relazionano i personaggi, permeati di atteggiamenti siculi quasi stereotipati per la loro diffusione.

Ed è in uno scenario quasi da manuale, di degradata periferia siciliana, popolata da personaggi quasi caricaturali, ignoranti, arroganti e tendenzialmente criminali, tra la curiosità malsana e l’istinto a combattere per il predominio che si svolge gran parte del film.

Una coppia turbolenta, composta da Alba Rohrwacher e la stessa Emma Dante, girando freneticamente per Palermo, distratta e nervosa da impegni indesiderati, rapporti di amore e odio con la città d’origine e riflessioni accennate sul loro stesso rapporto, finisce quasi per errore per imboccare via Castellana Bandiera, vicolo a doppio senso di marcia, troppo stretto per consentire a due automobili di passare contemporaneamente.

E l’incontro delle due auto in direzione opposta diventa per forza di cose uno scontro tra mondi diversi, modi di vivere la città e le relazioni opposti ma personalità fondamentalmente speculari.

Emma Dante ed Elena Cotta, vincitrice per questo ruolo mistico e vitreo della Coppa Volpi come migliore interprete femminile, infatti, come due bizzarri e pittoreschi alter ego, finiscono per dare vita ad uno scontro degno di un western, tra sfide, sguardi e provocazioni da duello, le cui vere armi non sono pistole ma caratteri spigolosi e “teste dure” e “corna” a cui tutti gli altri personaggi, apparentemente aggressivi, non fanno che da sfondo.

La lotta immobile tra le due, decise a non indietreggiare di un centimetro per facilitare il passaggio dell’altra auto sgomberando la strada, è esasperata e violenta nel suo scontrarsi immaginario, e non lascia posto a nessun altro, compresi la fidanzata e il nipote preferito che dovranno allontanarsi e ritagliare uno spazio altrove per avere parte dell’attenzione che cercano, e non cessa di causare al pubblico un inevitabile senso di ansia, che si alterna con una profonda angoscia e un paio di brevi risate liberatorie quanto amare.

Tra bambini che strillano, piccoli delinquenti, famiglie disastrate e clima neorealista si costruiscono situazioni talmente surreali da essere probabilmente autentiche e frequenti nelle vite quotidiane di qualcuno nelle nostre città, o meglio in città parallele alle nostre, così lontane da concepire e così vicine da poterle toccare.

La regia inquieta della Dante non risparmia nessuno, e anche a prescindere il turbamento emotivo dello spettatore è assicurato. Forse però contribuisce fin troppo a questo risultato un movimento di macchina continuo e tormentato, quasi confuso e insaziabile, che a me ricorda lo sguardo curioso e incredulo di uno spettatore a teatro, che non rendendosi conto di essere in scena fruga ogni dettaglio, affamato di tutto quello che può catturare.

L’impronta teatrale della Dante emerge in modo non prepotente, più nell’aspetto attoriale che in quello propriamente registico, specie nelle scelte dell’interpretazione dei personaggi e nella caratterizzazione del coro di caricature, con dialoghi serrati e coloratissimi, così complessi e intraducibili nel loro vivido dialetto e in qualche occasione in albanese contaminato da meritare i sottotitoli in italiano, per assicurare la puntuale comprensione del pubblico senza compromettere le evocative sonorità del palermitano.

 

(Martina Morabito)

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