ALDO BRAIBANTI, “PERVERSIONE DIABOLICA”

Si sono ricordati di lui perchè ha superato da un pezzo gli ottant’anni, non ha un centesimo, sta male e rischia di essere sfrattato dalla vecchia casa di Roma in cui vive. Così, ottanta parlamentari hanno presentato un’interrogazione per chiedere al governo di accelerare la pratica, avviata da anni, di assegnazione di un vitalizio che potrebbe permettergli di tirare avanti in condizioni meno precarie. Eppure, di Aldo Braibanti, della sua vicenda giudiziaria e umana, delle conseguenze politiche e giuridiche di questa vicenda, negli anni Sessanta e Settanta si è parlato e scritto parecchio.
Per quanto mi riguarda, tutto ebbe inizio nella primavera del 1968, quando Marco Pannella, che in quel tempo frequentava molto il palazzo di giustizia romano, entrò per caso in un’aula del tribunale. Ed ebbe l’impressione di assistere ad un processo della Santa Inquisizione. L’imputato era un uomo piccolo di poco più di quarant’anni, con la barbetta nera e lo sguardo penetrante. Sembrava rassegnato, o meglio estraneo all’ambiente che lo circondava. Sul suo capo pendeva un’accusa scovata tra le pagine meno esplorate del codice penale, nell’articolo 603, che veniva dopo quello dedicato al commercio degli schiavi e colpiva duramente il reato di plagio. Braibanti, secondo l’accusa, era colpevole di avere soggiogato, sottomesso, ridotto praticamente in schiavitù due giovani che avevano abbandonato le famiglie per vivere con lui. Mesi prima era stato accusato dello stesso reato Maurizio Arena per la sua storia d’amore con Maria Beatrice di Savoia, ma era stato assolto. Ancora pochi mesi e Aldo Braibanti sarà il primo imputato (e per fortuna anche l’ultimo) ad essere condannato in un tribunale italiano per il reato di plagio.
Pannella ebbe il merito di essere stato il primo a far uscire il processo dalle quattro mura dell’aula giudiziaria e a trasformarlo in un “caso” che coinvolse a suo tempo politici, intellettuali, artisti, la stampa e gran parte dell’opinione pubblica. Braibanti, ecco la sua colpa, era un “diverso”, come erano diverse le presunte streghe che si mandavano al rogo. Era un omosessuale dichiarato, in un tempo in cui l’omosessualità era ancora, per molti, un tabù, una malattia vergognosa da nascondere. Era un intellettuale “disorganico” di tendenza anarchica e dagli interessi più disparati, dalla poesia alla saggistica, dalla pittura al teatro, dalla lavorazione delle ceramiche allo studio della vita e dell’organizzazione sociale delle formiche. La sua colpa più immediata: avere avuto un rapporto omosessuale stabile con uno dei due giovani che vivevano con lui. Sono i familiari di questo giovane a dar vita al processo. Lo sequestrano con la forza, lo rinchiudono in manicomio. E denunciano Braibanti.
Il presunto plagiato trascorse nella casa dei matti ore terribili. Gli imposero di rinunciare agli amici, alle telefonate, alle corrispondenze. Gli vietarono la lettura di libri pubblicati da meno di cento anni. Lo sottoposero a quaranta elettroshock che ne alterarono profondamente la personalità. Quando entrò in manicomio era un buon pittore, quando ne uscì non sapeva più tenere i pennelli in mano. Eppure, nel corso del processo dichiarò sempre di avere scelto liberamente il suo rapporto con Braibanti. Ma non fu ascoltato. Ad essere ascoltato, invece, fu il pubblico ministero, Antonino Loiacono, il vero artefice del processo e della sua fase istruttoria. Per tre anni e mezzo raccolse pazientemente fatti e testimonianze, inseguendo una sua ricostruzione della personalità di Braibanti che avrebbe poi potuto calzare sul reato di plagio. Mantenne sempre l’istruttoria sommaria, senza mai formalizzarla, per tutto quel periodo, sebbene la legge prevedesse l’istruttoria sommaria soltanto quando l’accertamento del reato fosse breve e facile. La sua arringa in Corte d’Assise fu memorabile, un atto d’accusa contro la diversità e l’omosessualità. L’accusato era in preda a “pervertimento demoniaco”. “I negri, sono una razza che te la raccomando!”. “Chiedo una pena esemplare, affinchè nessun professorucolo domani possa venire a togliere la libertà a un innocente”. Inutilmente, il professor Leopoldo Piccardi, che difendeva Braibanti insieme con l’avvocato Ivo Reina, ricordò alla corte che l’ultimo processo celebrato in Europa per omosessualità era stato quello ad Oscar Wilde, nell’Inghilterra vittoriana. Il “piccolo e stortignaccolo Braibanti”, come lo definì l’avvocato Taddei, di parte civile, fu condannato a nove anni di reclusione.
A questo punto, la mobilitazione degli intellettutali e dei mass media divenne imponente. Pannella fece fuoco e fiamme su Notizie radicali, entrò in lizza l’Astrolabio, il settimanale per il quale allora lavoravo, intervennero Umberto Eco, Alberto Moravia, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Piergiorgio Bellocchio, Cesare Zavattini, Vittorio Gassman. Dacia Maraini descrisse in un racconto un pubblico ministero che si eccitava sessualmente mentre lanciava le sue accuse e che al culmine dell’arringa raggiungeva l’orgasmo. Si attendevano le motivazioni della sentenza, che il giudice Orlando Falco, presidente della Corte d’Assise giudicante, depositò dopo cinque mesi, invece dei venti giorni prescritti dalla legge. Di male in peggio. Arrivarono 340 roboanti cartelle in cui si scomodavano Freud, Bernheim, Benussi, Musatti, Janet, Morgue, Marcuse, Vasilev, Cesare, Don Giovanni, Napoleone, Casanova, Socrate, Alcibiade e perfino il diavolo nel tentativo di dimostrare che Braibanti aveva “sottoposto al proprio potere” i due giovani discepoli. Per Falco, Braibanti era “un diabolico, raffinato seduttore di spiriti, affetto da omosessualità intellettuale”.
In Corte d’Appello non cambia molto. I nove anni vengono ridotti a sei per “meriti resistenziali” perchè il “diabolico professore” era stato anche partigiano nelle formazioni del partito d’azione, arrestato e torturato dai seviziatori della famigerata banda Carità. Ma era confermato in pieno l’impianto accusatorio. Ricordo ancora le ultime parole dell’arringa dell’avvocato Sotgiu, che aveva sostituito il professor Piccardi nel collegio di difesa. Si rivolse a Braibanti. “Questa”, gli disse, “è per te un’ora buia, com’era quella in cui subivi le torture degli aguzzini fascisti. Ma ora come allora devi dar vita alla fiducia e alla speranza. Verranno anche adesso giustizia e libertà”. Non vennero. Nè l’una, nè l’altra. Braibanti scontò in carcere due anni interi, prima di usufruire della libertà condizionale.
Non è finita. Tra il primo e il secondo grado del processo, Pannella ed io veniamo denunciati dal dottor Loiacono. per diffamazione a mezzo stampa e calunnia.
Gli articoli di Notizie radicali e dell’ Astrolabio non gli erano proprio andati giù. Diversa la posizione del dottor Falco. Non denuncia, non querela, non prenderà parte al nostro processo. Proprio in quei giorni è stato nominato presidente della Corte incaricata di giudicare Pietro Valpreda, un altro anarchico, per la strage di piazza Fontana. E pensa che per il momento stare zitto è la cosa migliore. Il processo contro di noi, e contro Mario Signorino che era in quel tempo responsabile dell’Astrolabio, si svolse all’Aquila nei primi mesi del 1972. E fu come riaprire il caso Braibanti. I giornali ne parlarono. Ritornò a galla tutta la vicenda del “diabolico professore”, si cominciò a sostenere la necessità di eliminare dal codice penale il reato di plagio.
Non mancarono un’udienza Dacia Maraini e Vittorio Gassman, quest’ultimo ambita preda dei fotografi. E Ferruccio Parri, direttore dell’Astrolabio, venne a testimoniare in mio favore, malgrado i suoi 82 anni. “La responsabilità penale è personale”, disse, “e non tocca perciò il direttore che non sia anche responsabile del giornale. Ma sua è la responsabilità morale. Ed è per assumerla che qui rivendico la piena solidarietà col giudizio che Loteta ha dato sul processo Braibanti e quindi per la mia piena punibilità a pari titolo”. Naturalmente, non fu incriminato. A noi, invece, diedero nove mesi di reclusione, confermati in Appello e poi annullati in Cassazione.
Epilogo: l’8 giugno del 1981 la Corte Costituzionale dichiarò l’ illegittimità del reato di plagio, cancellandolo dal codice penale. Nella motivazione della sentenza si legge: “L’esame dettagliato delle varie e contrastanti interpretazioni date all’articolo 603 del codice penale nella dottrina e nella giurisprudenza mostra chiaramente l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuire ad essa un contenuto oggettivo, coerente e razionale e pertanto l’assoluta arbitrarietà della sua concreta applicazione. Giustamente essa è stata paragonata ad una mina vagante nel nostro ordinamento”. Una mina che non esploderà più. (GIUSEPPE LOTETA)

 

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