Atto Unico: “Sira” di Caspanello nel nome del padre, la maieutica dei fuori-legge

Grande teatro. Non poteva deludere “Sira”, lo spettacolo di e con Tino Caspanello, con la regia di Cinzia Muscolino, appuntamento sold out per la rassegna “Atto Unico”, presso la chiesa S. Maria Alemanna. La scrittura è del 1996, messa in scena per prima volta al teatro La lanterna rossa di Pagliara, sede anche della produzione di Caspanello, Teatro Pubblico Incanto. Ma è stata certamente una prima per Messina.

“Sira” si gioca nella luce fioca di un incontro che è comandato: Salvatore, magistralmente interpretato da Tino Calabrò, è un giovane con l’ordine del padre di uccidere un giornalista per aver scritto qualcosa di scomodo. Salvatore non conosce il volto della sua vittima, né il suo nome, ma è sconcertante per lui scoprire che quel volto coincide con il suo ex professore, interpretato da Tino Caspanello, un uomo distinto, particolarmente pacato, che con uno sguardo fugace riconosce il volto di Salvatore, “u scuru”. Il problema dell’identità che sorge, a prima battuta, ci mette di fronte all’inquietante consapevolezza di quanto l’altro possa essere così simile a noi quanto estremamente estraneo. Dal passato al presente, in una dimensione quasi di reminiscenza, avviene la maieutica dei due caratteri, da chi siamo oggi a chi siamo stati ieri: giornalista ed ex professore, pungente e scomodo nelle sue parole così come nei suoi insegnamenti, da una parte, Salvatore, dall’altra, killer e alunno, fragile, insicuro e irriverente. La nostra identità contiene la traccia di un passato, che Caspanello ha saputo modulare attraverso l’esasperazione degli atteggiamenti che prima venivano attuti in facili giustificazioni come l’obiettivo pedagogico, per il primo, e l’immaturità, per il secondo. Tuttavia, entrambi, Caspanello e Calabrò, offrono due personaggi fuori-legge e ribelli: nei confronti della società, dei padri, delle rigide e frigide regole che li hanno portati alla graffiante verve odierna.

È un gioco di luci e di ombre sia nella scenografia, che nel testo.  Salvatore, “u scuru”, si rivelava profondo, secondo l’ex insegnante, tra i banchi di scuola, capacità di ingrigirsi come sintomo di capacità di riflessione, ma l’oscurità è anche la zona della minaccia, della violenza, della presa di potere. Così “Sira” si risolve nella luce quale svelamento dell’altro posto davanti al suo amico/nemico, posto a guardarlo in faccia, a puntargli gli occhi contro e implorare l’ultimo grido “tu non mi ucciderai”. Il volto dell’altro suggerisce la supplica della difesa della vita, unico valore che veramente emerge dallo spettacolo, valore unico, intoccabile e inviolabile.

Il dialogo, ottimamente condotto nei suoi ritmi, grazie ai toni ben bilanciati, senza, però, far cadere mai l’attenzione dello spettatore, si alterna anche a diverse sfumature di significato: dal sapere come fonte di conoscenza, come momento noioso e petulante per i giovani studenti sui banchi di scuola, come indifferenza degli adulti all’informazione, al sapere come fonte di indagine e perlustrazione della propria “preda”. È il mondo dell’inchiesta, dei casi di accusa e del potere della comunicazione: “il cacciatore deve studiare la sua preda. Se vuoi insegnare qualcosa a qualcuno, lo devi conoscere bene, lo devi amare, sì, anche amare. E se vuoi ammazzarlo, allora, anche in questo caso devi conoscere il tuo nemico, devi sapere come si muove, come parla, quello che dice”. E il giornalista non lascia niente al caso: rivela a Salvatore di conoscere il suo mandante, un padre-padrone; ciò che sfugge all’insegnamento di un genitore ad un figlio, viene restituito da un docente, che indubbiamente non ha dimenticato il suo mestiere. Non esiste morale, forse compassione per Salvatore, che non ha avuto altra scelta che quella di eseguire un comando, come un sicario. Quella vita che si aspira come un’ultima sigaretta, che si consuma sempre più in fretta, porta il carnefice a scegliere la disobbedienza al padre. I rapporti familiari, dunque, appaiono come rapporti dettati dalla dipendenza che si lacerano nel dolore di una perdita imprevista, nel diktat senza spiegazioni, nell’incapacità di amare. Oltre ogni forma di terrorismo, violenza o sopraffazione, è l’uomo, quello che emerge dallo spettacolo di Caspanello, a connotarsi come il carnefice di se stesso, attraverso una denuncia civile che diventa ontologica.

Ma, ancora una volta, la luce: “rispettare vuol dire anche dare un po’ di libertà, un po’ di tempo ogni tanto”, quello stesso tempo, che tanto lentamente si dilata, quanto velocemente si contrae, nel dialogo tra i due personaggi raggiunge attimi concitati, urgenti di giungere all’utile, all’obiettivo finale. Diventerà, però, il passatempo la zona franca, libera da ogni dipendenza, costruttiva ed identitaria, l’unica zona di confine tra noi e gli altri.

In “Sira” non esiste il caso, tutto è perfettamente premeditato da entrambi le parti, tutto combattuto spalla contro spalla, occhi negli occhi, alimentando una tensione prospettica, facilitata anche dall’esecuzione attoriale circolare, che non si risolve certamente in un finale che distingue vincitori e vinti. Entrambi protagonisti, hanno bisogno di liberare loro stessi, le loro anime. La chance è offerta proprio nel finale: Salvatore non spara, ma, in ginocchio, segue la sua vittima voltargli le spalle e ricevere, così, l’unico vero insegnamento: la vita vera, quella che è da venire.

(Clarissa Comunale)

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