“La buona novella”: l’eredità di Faber raccolta da uno straordinario Cristicchi

Premessa

Non leggere! Non iniziare neppure a leggere quanto di seguito. Prendi la borsa, il soprabito e vai a teatro perchè “La buona novella” di Simone Cristicchi è uno spettacolo che va assolutamente visto.

Ciò premesso, laddove, caro lettore, non ti fosse proprio possibile goderne dal vivo, mi auguro che quanto di seguito riesca a farti comprendere cosa ti sei perso.

“La buona novella”

Il presupposto fondamentale dal quale muovere ogni osservazione possibile è che nessuno può pensare di cantare De Andrè e farla franca. Se poi lo sventurato pensa di uscire illeso dalle critiche dopo essersi imbarcato nella più temibile delle sfide, ossia di riproporre nientemeno che “La buona novella”, allora è proprio folle.

Ma d’improvviso questo abnorme preconcetto cade. Simone Cristicchi sale sul palco del Teatro Vittorio Emanuele indossando un ampio spolverino nero: la sua inconfondibile chioma incornicia quel viso che fai difficoltà a capire se è serio o meno e sai che da un momento all’altro potrebbe presentare un quadro satirico o un amaro conto alla coscienza di chi ascolta. E’ lui, quello diventato famoso per una canzonetta (geniale!) e che poi ha stupito tutti portando in teatro l’esodo degli istriani, passando per il ritratto certosino dell’italiano cazzaro (il suo “Piero”) e il canto della lettera di Antonio a Margherita, scritta tra le pareti di un manicomio dove sboccia un amore tenero in grado di fare da contraltare alla tristezza della solitudine etichettata come malattia mentale.

Diciamocelo, da uno così ti puoi aspettare di tutto. Per uno così, ci sta tutto che la Fondazione De Andrè pensi sia il giusto interprete di quel viaggio che “il poeta degli ultimi” compì nelle vite di Maria e Gesù, traendo ispirazione per il suo racconto dai Vangeli apocrifi che – con la maestria che solo quel grande poeta genovese aveva – ha riproposto in musica.

Alle spalle di Cristicchi una straordinaria orchestra del Teatro, diretta dal friulano Valter Silvilotti (che ha rivisto gli arrangiamenti originari di De Andrè e Reverberi e, in passato, ha composto le musiche dello spettacolo Magazzino 18) e ancora dietro, un emozionato ed emozionante coro di voci messinesi, quelle dei ragazzi del coro scolastico Maurolico-Verona Trento e del coro giovanile “I Mirabili” diretto da Dario Pino.

Lo spettacolo si articola in tre diverse parti: la prima è dedicata ad un monologo introduttivo struggente e ironico insieme, che strappa qualche sorriso ma non può non commuovere. Poi è la volta dei brani tratti dal concept album del cantautore ligure, interpretati magistralmente, recitati senza proporre inappropriate caricature di Faber, “cristicchianizzate” al punto da farle apparire inedite anche al più attento e critico amante di De Andrè. Infine torna Simone e propone una chiosa di brani suoi, impegnati nel sociale e nella denuncia di una storia che non va dimenticata: “Magazzino 18”, la tragedia fin troppo taciuta delle foibe e degli esuli del ’47,in fuga con “le vite imballate alla meglio” portate con sé; c’è spazio anche per un’allegoria dell’esistenza sprecata, dei tanti “farò, dirò” che in un istante diventano nulla quando le prospettive del futuro vengono strappate via dalla morte: questo il tema de “La prima volta che sono morto”, sarcastico paradosso in musica; si chiude con una morsa allo stomaco per le parole nero su bianco e poi cantate dall’aedo riccio, che racconta di passione e dolore vissute da un paziente psichiatrico costretto a vivere una vita a metà tra le sbarre di un ospedale, a cui fa da contraltare la dolcezza e l’innocenza di un amore sbocciato come un fiore in quel luogo di sofferenza. “Ti regalerò una rosa” è la chiusa di uno spettacolo che dà i brividi e che si congeda con questo brano che ricorda un monito deandreiano “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.

Riavvolgiamo il nastro e cominciamo dall’inizio. “A volte ritorno”, di Cristicchi e Pelliti, è il primo toccante momento dello spettacolo ed è ispirato ai testi di Don Andrea Gallo e Don Pierluigi di Piazza. A tornare è Gesù Crist…icchi, che oggi avrebbe gli occhi di un profugo, uno di quelli che ogni giorno giungono sino alle nostre coste in cerca di una pace e una dignità che è negata loro nei luoghi di provenienza martoriati da fame e guerre, alle quali noi assistiamo come osservatori acritici e inermi davanti al televisore. E la condanna all’ignavia è uno dei pugni allo stomaco che lo spettatore deve incassare mentre l’artista, dal proscenio, racconta di una Via Crucis dei giorni nostri che passa dal nuovo esodo dei migranti, al silenzio delle violenze nelle carceri, all’orrore di chi ruba l’infanzia e l’innocenza. Gesù come un migrante, Gesù come un siriano. E con lui Maria, una madre gravida che scappa dal pericolo, che cerca un riparo. Potrebbe chiamarsi Aicha ed essere fuggita dalla sua terra intraprendendo un viaggio della speranza: avrebbe gli occhi della Vergine e lo stesso amore verso il figlio che aspetta che la Madonna nutriva per chi cresceva nel suo giovane ventre. Quel figlio che ha visto inchiodato ad una croce, ai piedi della quale, insieme alle madri di Dimaco e Tito ha pianto. Ma sono lacrime amare quelle della mamma del Salvatore, giustiziato tra i ladroni, che guardando al cielo si lascia scappare – così l’ha immaginato Faber – “non fossi stato figlio di Dio, ti avrei ancora per figlio mio”. Un lamento struggente che strazia il cuore.

 

Gesù come un clochard, Gesù come uno condannato. E dietro le sbarre di una prigione troverebbe “tutti i Lazzaro che non resusciteranno”. Lì dove ha perso la vita un martire che deve essere ricordato: Stefano. “Anche lui ha lasciato le sue impronte su un sudario”, quelle di un corpo esile “spezzato da mani che picchiano”; Cucchi, una vittima il cui nome rendere immortale attraverso l’arte. E se Gesù tornasse oggi “finirebbe ammazzato in un carcere e maledirebbe mezzo mondo”. Sarete giudicati, saremo giudicati, ce lo ricorda uno straordinario Cristicchi le cui parole non possono che arrivare dritte all’anima toccarne le corde più sensibili e violentarle con la forza di una verità urlata in faccia, tanto da commuovere. Questa è la ratio dell’arte, saper stupire ma altresì suscitare riflessione. E la catarsi è palese e palpabile nella sala che applaude una messinscena che odora di attualità. Il sempiterno De Andrè trova in Cristicchi un cantastorie ideale per tramandare le canzoni che lui ha voluto narrare. Molto più di un semplice interprete, l’artista romano si consacra sempre con più forza come uno dei più promettenti astri dello scenario cantautorale italiano. La standing ovation ideale va a lui prima ancora che a “La buona novella” la cui immensità è già nota ai più e non stupisce. Quel che lascia a bocca aperta, invece, è la capacità di un altro che non si chiami Fabrizio di farla sua a tal punto.

Da vedere e rivedere. Chi se l’è perso approfitti di oggi e domani per assistere allo spettacolo: prendetelo come un consiglio spassionato!

@EleonoraUrzìMondo

Partecipa alla discussione. Commenta l'articolo su Messinaora.it