DIANA, LE MINE E LA MALEDIZIONE DELLE SUOCERE

 

C’era una volta una principessa triste, ma così triste che…Vabbè facciamoci su centinaia di film e libri così magari ci paghiamo le bollette.

E moda fu.

Perché i film biografici sui reali afflitti sono un evergreen, specie quando si tratta di damigelle o al massimo signore di una certa età.

Chissà perché non interesserebbe allo stesso modo un documentario su Franz Joseph e i capelli bianchi o sul principe Carlo che, svanito il sortilegio, scopre di aver sposato un cavallo.

Fatto sta che l’idea della fanciulla di famiglia meno nobile o temperamento poco tradizionale che diventa prigioniera di etichette e protocolli monarchici è un evergreen quanto le patatine fritte alle feste. Probabilmente per un misto di fascino e sadismo invidioso e vendicativo.

E così dopo la Sissi cavallerizza, indimenticabile nell’interpretazione di Romy Schneider, e la teenager Marie Antoinette di Sofia Coppola, a cui presta il suo volto la splendida Kirsten Dunst, è la volta di Diana, vera e propria pop star internazionale, regina di cuori e ferita aperta nel cuore del Regno Unito.

Prima ancora di entrare in sala non riesco a non chiedermi se ci fosse bisogno di questo film e spero con tutta me stessa che il regista abbia qualcosa da dirmi. Da dire al mondo.

Le luci si spengono e Hirschbiegel ci porta negli ultimi due anni di vita della principessa del Galles, zompettando tra vita privata e pubblica di Lady D, come tra le nazioni in cui il film è ambientato (Regno Unito, Angola, Italia, Pakistan, Australia, Serbia), nel tentativo non solo di rappresentare la totalità del personaggio e la conflittualità tra le due dimensioni ma anche di sottolineare la pericolosa commistione tra i due mondi e l’influenza di questo fattore sulla storia.

Nucleo di questi ultimi turbolenti due anni è il cardiochirurgo pakistano Hashnat Kahn, compagno discreto e segreto di Diana tra Carlo, che nel film viene nominato ma mai mostrato,e Dodi Al Fayed, dipinto essenzialmente come un tamarro preverbale della provincia laziale. Il colpo di fulmine tra Diana e il dottore dalla famiglia ingombrante e incontentabile basterà a colmare le loro inconciliabili differenze, le manie ossessivo compulsive di entrambi e la pressione dei media e di un popolo innamorato? 

Ci facciamo tutti questa domanda per quasi due ore, sapendo già che l’avrà vinta il miliardario egiziano, ma sperando fino all’ultimo che Naveen Andrews, il Sayid di Lost, posi una buona volta le sigarette e tagli il cordone ombelicale. 

Naomi Watts, seppur aiutata da trucco, parrucco e abiti di una precisione inumana si limita ad una studiata e impeccabile imitazione meccanica della principessa, forse studiare meticolosamente la testa inclinata e la postura del collo di Diana ha rubato tempo al lavoro sul personaggio che poteva essere il ruolo della sua vita.

Mettiamoci anche che il suo viso comincia a rivelare la sua età più di quanto dovrebbe e capirete perché è meglio ricordarla come scriteriata masochista in The Ring che come principessa del popolo. Anche tutto il resto è estremamente tiepido e cauto, tra una colonna sonora ripetitiva fondata su Bach e Brel a inquadrature classiche e quasi noiose.

In conclusione, un film che sembra nato come sceneggiato televisivo in due puntate, casto e lacrimevole, per over 60, e che lascia tutti gli altri grati di poter guidare la macchina in santa pace fino a casa, ma contemporaneamente psicofisicamente incapaci di superare i 40 km orari.

La risposta alla domanda che mi ero posta non può quindi che essere no.

Ma ormai le due ore di noia e soap opera dai toni smielati sono trascorse, e alla tristezza del finale che tutti conosciamo benissimo si aggiunge l’inutilità e l’arroganza di un film che viola l’unico aspetto che ancora non era stato sbattuto in piazza di questa donna, nel bene e nel male.

 

(Martina Morabito)

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