MESSINA MONARCHICA, ANNO 1946: ECCO COSA ACCADEVA NEI GIORNI CHE PRECEDETTERO IL REFERENDUM

Pochi sanno del 2 giugno 1946 a Messina, dei giorni che precedettero il referendum, dell’apporto di un gruppo di giovani alla campagna repubblicana. Ecco cosa accadde:

Ogni giorno insieme, i giovani comunisti, socialisti, repubblicani e anarchici (questi ultimi avevano rinunciato al loro tradizionale astensionismo elettorale per un voto a favore della Repubblica nel referendum) giravano per la città e per i villaggi ad attaccare manifesti e a diffondere opuscoli, a improvvisare comizi e dibattiti, a scontrarsi con i monarchici che in città non erano pochi, a sostenere, nei teatri e in piazza Cairoli, i comizi degli oratori repubblicani venuti da Roma, a contrastare quelli degli oratori monarchici. E ogni comizio, di qualsiasi partito fosse, si trasformava inevitabilmente in una rissa, almeno verbale.

“Repubblica!”, si gridava da una parte; “Monarchia!”, dall’altra. E non fu poco lo scorno dei ragazzi di sinistra quando interruppero, in piazza Cairoli, il comizio del liberale e monarchico Roberto Lucifero, avanzando verso il palco con il braccio teso e le dita della mano destra inequivocabilmente piegate in modo da simboleggiare un paio di corna. Furono bloccati da un oratore imperturbabile che scandì al microfono: “Vedo avanzare verso di me una schiera di giovani che innalza l’emblema dei loro padri…”. Gli indici e i mignoli ritornarono subito al loro posto.

referendum
Un manifesto elettorale dell’epoca

Messina, città monarchica. Nei mesi che precedettero il referendum i giovani monarchici erano molti e ben organizzati. I ragazzi della sinistra facevano più del possibile, ma il confronto con gli avversari era decisamente impari. Se ne ebbe la prova soprattutto il 29 maggio del 1946, quando venne a Messina Umberto di Savoia, da poche settimane re, per salutare i sudditi dall’alto del balcone centrale del palazzo della prefettura, invitandoli implicitamente a votare per la monarchia. Quel giorno furono lì, prima che la folla dei fedeli rendesse impossibile l’accesso alle posizioni più ambite. L’appuntamento era sotto il balcone, tra il palazzo e il Nettuno del Montorsoli. Non in molti, trenta o quaranta, aspettarono che la piazza si gremisse. E poi il re apparve. Inconfondibilmente lui, il principe di Piemonte delle copertine della “Domenica del Corriere”, anche se leggermente invecchiato e ormai quasi calvo. La folla esplose in un applauso che sembrò interminabile, inframmezzato da squillanti “Viva il re!”, “Viva la casa Savoia!”, “Monarchia, monarchia!”. Quando subentrò il silenzio, Umberto si sporse lentamente dal balcone, alzò le braccia e regalò al suo pubblico un gran sorriso. E allora, nella piazza paralizzata, tutti udirono nettamente il giudizio dei giovani di sinistra, ritmato e urlato: “Buf-fo-ne, buf-fo-ne”. L’udì per primo il re, da pochi metri d’altezza. E il sorriso si spense dal volto reale come un fuoco fatuo. Umberto si ritrasse, parve d’improvviso meno alto, più umano, quasi rassegnato, come l’avremmo rivisto anni dopo nelle fotografie dell’esilio.

Fu un attimo. E si scatenò il finimondo. I primi a reagire furono i marinai di tre navi da guerra ormeggiate nel porto, istigati dagli ufficiali che avevano fatto del giuramento al re una questione d’onore e di bastone. Poi i monarchici di città e il sottoproletariato messinese, entusiasta dei pacchi di pasta e delle scarpe spaiate che i seguaci del re erano andati distribuendo nei quartieri popolari. Alcuni “disturbatori”, dopo un meticoloso pestaggio, furono issati di peso oltre la balaustra della passeggiata a mare e lanciati in acqua. Altri, abbandonati per terra con ancora un barlume di conoscenza. Altri ancora, più fortunati, riuscirono a scappare e a rifugiarsi in un caffè di piazza Municipio, tirandosi dietro la saracinesca e aspettando il tardivo, ma per quella volta auspicato, arrivo della “Celere”.
Ma non era finita lì. L’indomani, 30 maggio, era l’ultimo giorno utile per la propaganda elettorale, prima della pausa di riflessione che avrebbe preceduto il voto. In piazza Cairoli erano fissati per le diciassette un comizio dei separatisti e per le diciotto una manifestazione repubblicana. Al balcone, per gli indipendentisti, c’era Anselmo Crisafulli, avvocato di grido e buon oratore. Parlava ancora lui quando la piazza cominciò a riempirsi di cartelloni inneggianti alla Repubblica e di bandiere tricolori senza lo stemma sabaudo. E anche, curiosamente, di marinai. Erano quelli del giorno prima, tutti armati con un manganello nascosto dentro il giubbotto. E fu subito scontro. Dalle proporzioni preoccupanti, tanto da fare accorrere in poco tempo interi reparti di polizia e di carabinieri.

Ma le cariche non bastavano a separare i contendenti. E a questo punto i carabinieri ricorsero alle armi. Non spararono ad altezza d’uomo, s’intende. Ma in aria, per intimorire e cercare di riportare un po’ d’ordine in piazza. Non tutti i colpi, però, finirono in cielo. Alcuni trapassarono il muro della casa dove al balcone stavano ancora i separatisti, a pochi centimetri dalle loro teste. E allora Crisafulli, che non aveva capito molto di ciò che stava accadendo in piazza e credeva si trattasse di un tentativo di interrompere il suo comizio, riprese il microfono che aveva abbandonato all’inizio dei tafferugli e cominciò a gridare: “I carabinieri ci sparano addosso? Ebbene sappiano che noi non ci facciamo intimidire. Assalteremo le loro caserme, prenderemo le loro armi, proclameremo l’indipendenza della Sicilia”. Ci vollero ore perchè tutto finisse.

Due giorni dopo, il 2 giugno, Messina diede 78.343 voti alla monarchia e appena 13.446 voti alla repubblica. Ma in molte altre città italiane andò diversamente. (GIUSEPPE LOTETA, scrittore e giornalista)

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