Patto con la massoneria, sedici anni di passerelle antimafia e ancora niente nomi

Non è questione di benealtrismo. Che la Commissione Parlamentare Antimafia abbia “acceso i riflettori” su Messina e Barcellona Pg può bastare, se ci basta avere l’occasione per spiegare ai più giovani che esiste una commissione bicamerale formata da senatori e deputati, con compiti importanti tra cui quello di indagare sul rapporto tra mafia e politica “sia riguardo alla sua articolazione nel territorio, negli organi amministrativi, con particolare riferimento alla selezione dei gruppi dirigenti e delle candidature per le assemblee elettive, sia riguardo a quelle sue manifestazioni che, nei successivi momenti storici, hanno determinato delitti e stragi di carattere politico-mafioso”.

Quello che non può bastare, invece, è scoprire che dopo quattro missioni (la prima fu nel 1998 quando Presidente era Ottaviano Del Turco, e fu all’indomani dell’omicidio del Prof Matteo Bottari, genero dell’allora Rettore Cuzzocrea) il vocabolario e le conclusioni non sono cambiate. Anzi dal “verminaio” si è passati a toni moderati, con l’“aria irrespirabile” in pieno stile Bindi.

Messina dunque si conferma la città del Patto tra mafia e massoneria. Una fotografia da scattare, e conservare ai posteri?  Nella relazione conclusiva di quella prima missione si legge: “quel territorio mostrava un volto tranquillo che non richiedeva, ad una osservazione superficiale, una collocazione di primo piano nel lavoro di indagine della Commissione.  Ma si trattava di una interpretazione errata: Messina presentava e presenta caratteri, problemi, contraddizioni, emergenze che richiedevano, al contrario un esame più urgente ed attento per comprendere il ruolo e la collocazione di quel territorio nel contesto della situazione siciliana”. Inoltre quella commissione parlamentare nel 1998 scriveva: “Per ripristinare un livello accettabile di legalità e di certezza dei diritti di civiltà democratica e giuridica sono necessarie azioni esemplari, da ogni punto di vista, di rinnovamento degli uomini nelle principali posizioni nelle quali si fonda la presenza dello Stato in una realtà periferica: le forze dell’ordine, la magistratura, la scuola e l’apparato amministrativo”.

Già allora la Commissione fece emergere anche il ruolo della mafia barcellonese, “delegata” da cosa nostra palermitana e catanese a controllare gli affari sullo Stretto, una regia che spiegava la relativa tranquillità “militare” sul nostro territorio.

Nel 1999, invece, a reggere la Procura generale di Messina, in qualità di membro anziano, arriva Franco Cassata: l’ex potentissimo magistrato originario di Barcellona Pg, uscito di scena dopo la condanna per diffamazione  per il suo falso dossier su Adolfo Parmaliana. Il suo nome non è stato pronunciato, eppure tra i familiari ritenuti vittime di mafia, la Commissione presieduta da Bindi, ha voluto incontrare anche la vedova del docente universitario che prima di suicidarsi aveva lasciato un j’accuse nero su bianco.

Insomma, la commissione accede ad informazioni importati, parla con i magistrati, scatta “fotografie” per lo Stato. E non possiamo che dar merito al giovane deputato D’Uva di essersi attivato (come nemmeno i suoi illustri predecessori in commissione hanno fatto, cioè Giampiero D’Alia e Francantonio Genovese) per riportare all’attenzione nazionale la città “babba”.

Ma a cosa serve, se ad ogni legislatura le informazioni raccolte si “disperdono”, se a memoria non esiste un solo atto politico della commissione parlamentare che abbia apportato modifiche a quel “patto tra mafia e massoneria” oggi ancora così attuale ed efficace.

Di “poteri forti” può parlare la gente per strada, al bar (magari!) ma il passo necessario sarebbe associare nomi e circostanze, fornire dati, modificare un vocabolario che appare stantio. Vedere Rosi Bindy quasi stupita che “la criminalità organizzata si sia così ben infiltrata al nord” (a proposito degli ultimi arresti firmati dalla Dda di Milano) o che sui casi Alfano e Manca “daremo il nostro contributo per la verità e la giustizia”, non ci rassicura.

Sarà colpa delle nostre troppe letture sciasciane, sarà che sull’antimafia parolaia abbia detto e scritto, ma temiamo che la giustizia si regga poco sul contributo politico e molto sulla magistratura inquirente, spesso abbandonata ad un destino di eroismo non richiesto. Una volta avremmo aggiunto anche il ruolo fondamentale dei giornalisti: ma il potere e la credibilità delle grandi testate è inversamente proporzionale alla solitudine di certe brillanti penne di periferia, al coraggio di raccontare fatti senza paracadute.

Emblematico il caso di Attilio Manca: dieci anni di incessante e solitaria battaglia dei familiari, che solo di recente ha raggiunto l’attenzione mediatica e politica che meritava. Un caso che, al pari dell’omicidio Alfano, non rappresenta solo una ferita privata, ma mostra i contorni di un sistema di protezione e di complicità che avrebbe permesso a boss latitanti (da Bernardo Provenzano a Nitto Santapaola) di spostarsi per il Paese, e anche fuori, passando da Barcellona Pg, dove quel “patto” di cui tanto si parla è realtà da oltre un ventennio.

Che sia la volta buona, come sostiene Sonia Alfano?

In questo momento l’attenzione è su un altro famigerato “patto”: quella trattativa Stato –Mafia di cui molti non credono neppure l’esistenza, e per il quale ieri è stato interrogato al Quirinale, con rigidissime misure di sicurezza che non hanno consentito l’accesso alla stampa, il capo dello stato Giorgio Napolitano. Non ho sbagliato a scrivere stato. Oggi mi appare minuscolo. (@palmira.mancuso)

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