Sul caso Tomasello: plagio, potere e la nuova università

di Pietro Saitta – In questi giorni di noia (cosa vuoi infatti che siano, per restare al solo caso italiano, la “questione sociale” costituita dall’emergenza abitativa che si manifesta a due passi da Via Solferino; senza contare, che so, la “ri-abilitazione” che il Ministero degli Interni fa di CasaPound?) uno straordinario Gian Antonio Stella, dalle pagine del Corriere della Sera, riesce ancora una volta a darci qualche spunto per riflettere sugli intrecci tra il “centro” e le presunte “periferie” del potere.

Ossia su una parte delle complesse relazioni che uniscono gli spazi di produzione di quel senso comune necessario al dispiegarsi della forza (come possono esserlo le pagine del più importante quotidiano nazionale) e gli spazi sociali decentrati, esclusi per lo più dalla produzione del discorso pubblico, eppure periodicamente presenti in esso in ragione della principale funzione da loro svolta: quella che consiste nell’incarnare il male e, di riflesso, promuovere moralmente il soggetto parlante. Senza contare naturalmente le funzioni contingenti: quelle che consistono nel venire occasionalmente in soccorso alle propaggini periferiche dei poteri politici centrali e garantire dunque gli equilibri e la stabilità del centro. Come vedremo, si tratta dunque di quella che chiameremo una storia e un complesso di relazioni fondate sulla “riattivazione”.

Ma prima di tutto è necessario chiarire che la vicenda che funge da pretesto per queste note è quella che riguarda Dario Tomasello, il professore associato dell’Università di Messina che, come ci ricorda lo stesso Stella (http://www.corriere.it/cronache/16_febbraio_01/testi-copiati-esame-prof-84e09d94-c8b3-11e5-8532-9fbac1d67c73.shtml), avrebbe “copiato ma non perso il  concorso” utile a esperire una promozione e diventare così docente ordinario. Una “promozione”, peraltro, confermata per ben due volte da un’apposita Commissione del Ministero dell’Università, malgrado la denuncia di un plagio esercitato ripetutamente ai danni di un antico “maestro” del candidato.

En passant, varrebbe già qui la pena di notare che Dario Tomasello nel 2012, così come oggi, non ha vinto né partecipato ad alcun concorso, dato che quella a cui aveva acceduto era invece una “abilitazione”; ossia una valutazione dei titoli e della carriera accademica (composta da quantità e qualità delle pubblicazioni, dal prestigio delle sedi editoriali, dalla partecipazione del candidato a progetti di ricerca internazionali, dalla didattica, dall’organizzazione di convegni ed eventi culturali etc.) che non prevede affatto una competizione tra le centinaia di candidati presenti e che, soprattutto, non produce automatici avanzamenti di carriera. Il concorso vero, in altri termini, dovrà ancora esserci.

Tuttavia ai fini dell’analisi è altresì interessante riflettere su come lo scandalo inizi. Ossia come esso prenda forma a partire dalla documentazione prodotta da un altro candidato alla medesima tornata di abilitazioni, attivo presso un differente Dipartimento della stessa Università, che avrebbe dimostrato come Tomasello avrebbe massivamente plagiato l’opera del comune ex “docente di riferimento”. Secondo la ricostruzione dello stesso Stella, questo anziano candidato all’abilitazione – che in anni lontani aveva condiviso con Tomasello la frequentazione della cattedra di un vecchio e autorevole docente dell’Università di Messina – risentito per la propria mancata abilitazione, viene “colto da una folgorazione, una chiaroveggenza del caso, uno strappo nel cielo di carta”. Riconosce cioè “qua e là nei lavori del Tomasello non solo i pensieri ma le parole stesse di Amoroso”. Va dunque a verificare e scopre che “c’erano pagine e pagine non ispirate, ma riprese da questo o quel libro con il ‘copia incolla’. Senza virgolette e citazione dei testi originali”.

Interrogato sulla vicenda, lo stesso anziano comune maestro spiega inoltre che alla base del “plagiarismo” di Tomasello vi è una tecnica – aggiungiamo noi, insieme paradossale, raffinata e grezza – che consiste nel  “prendere pagine e ancora pagine, modificando al più il nome di un autore con un altro autore; insomma semplicemente mettendo, faccio un esempio, un Brancati lì dove v’era un Tecchi” e riferendo quel che spetterebbe naturalmente a Tecchi in termini di scrittura o ideologia a Brancati. O ancora, giusto per chiarire meglio la questione, trattando l’Iliade come se fosse intercambiabile con la Tempesta di Shakespeare.

Cosa ancora più sorprendente, il carattere surrealista e situazionista di questa straordinaria operazione culturale sarebbe passato inosservato agli occhi non solo del gotha scientifico ministeriale (composto, secondo le attuali regole, dagli ordinari dei settori scientifici con il miglior curriculum oggettivamente valutato), ma, come mostra il catalogo ad accesso pubblico della produzione scientifica individuale del personale di ricerca universitario (https://iris.unime.it ), anche a quello dei comitati scientifici e ai valutatori anonimi di riviste e case editrici che si collocano ai vertici dell’editoria scientifica italiana (Il Mulino, Carocci, Donzelli, Olschki, per citarne solo alcuni), nonché dell’organizzazione culturale internazionale (il curriculum anch’esso pubblico di Tomasello mostra infatti che il docente è stato relatore invitato di una pletora di prestigiose università e istituzioni culturali europee e statunitensi).

Prestigiosi valutatori dunque – appartenenti in primis al settore scientifico di Tomasello, ma anche ad altri, in ragione della natura interdisciplinare della sua ricerca – che avrebbero ripetutamente e per decenni confuso Tecchi con Brancati od Omero con Shakespeare…

Ve ne sarebbe abbastanza, insomma, per dare ragioni a chi ritiene inutile l’insegnamento della letteratura o delle scienze umane in genere, ossia il regno delle parole in libertà, e vorrebbe invece una spesa pubblica orientata solo verso centri di ricerca e di formazione dediti ad alcuni campi privilegiati della scienza o dell’economia; saperi “duri” e razionali su cui, si sa, è impossibile mentire e si fonda la ricchezza delle nazioni…

amorosoMa prima di toccare questo punto è importante notare che quello che ci troviamo dinanzi è un rilevantissimo giallo culturale e un mistero reso ancora più intricato (ma questo non lo ha detto ancora nessuno; curiosamente neanche lo stesso accusato) dalla recensione di un libro di Tomasello che proprio lo stesso antico e plagiato maestro, in data 3 luglio 2006, fa sulla Gazzetta del Sud (recensione presente peraltro sul sito dell’Università di Messina, nella sezione dedicata alla rassegna stampa). Nel parlare di La realtà per il suo verso, un volume di Tomasello dedicato a Pascoli e posto al centro delle accuse di plagio, l’anziano maestro spiega ai lettori che si troveranno dinanzi “a uno studio originale e ricco di taglienti aperture critiche” e che con “rigore di metodo vengono studiati i nessi fra vari nuclei, il gioco dialettico dei ritmi”, e via dicendo di sperticato elogio.  

Se questa è la sostanza contenutistica e culturale di uno scandalo – che, a ben guardare, chiama in causa non solo i rapporti tra Tomasello, l’altro e più anziano candidato e il loro maestro, ma il sistema culturale nel suo complesso, dentro e fuori i confini geografici del Paese e dell’italianistica – è forse interessante prestare uno sguardo anche alla cornice entro cui esso ha luogo. La struttura, cioè, entro cui si muove lo scandalo.

L’Università in generale, e quella di Messina in particolare, sono da anni al centro dell’attenzione sia del Corriere della Sera che di Stella. Per spiegare questa curiosa occorrenza molti interventi (a partire da quelli facilmente rinvenibili su Roars, un sito indipendente di ottima reputazione, dedicato ai temi del governo dell’Università), pur lontani dal negare l’esistenza di numerosi problemi, hanno sottolineato come sia in corso una profonda ristrutturazione del sistema universitario. Una ristrutturazione tra i cui obiettivi probabili si rinvengono una drastica riduzione del numero degli atenei italiani da perseguirsi tramite politiche di accorpamento, la distinzione tra un ristretto numero di università “eccellenti” dedite alla ricerca e alla formazione “di qualità” e le altre, di semplice insegnamento e scarso credito. L’obiettivo, insomma, consiste in una “polarizzazione istituzionale” e delle opportunità di accesso a una formazione di qualità, che riflette quella sociale già in atto e apprezzabile a partire dal depauperamento delle classi medie e dal divario geografico relativo agli indicatori di sviluppo economico, ai servizi etc.

Tattica integrante di questo processo politico, istituzionale e sociale è un’azione comunicativa protratta nel tempo e tesa al discredito. Un discredito che, certo, colpisce prevalentemente taluni atenei anziché altri (quelli che meglio di altri prestano il fianco); ma che produce anche forme di generalizzazione nel sentire comune e che costituisce dunque un tassello discorsivo più ampio di un attacco rivolto all’Università pubblica nel suo complesso e a quella meridionale in particolare.

Riassumendo grossolanamente – e malgrado le apparenti contraddizioni in termini – in questa prospettiva attaccare l’università pubblica serve a valorizzare quella privata; mentre attaccare le università meridionali serve soprattutto a depauperarle di studenti e risorse, così da facilitare la concentrazione di studenti in un numero ristretto di università  di buona fama, collocate per lo più nelle aree settentrionali del paese.  Una dinamica, quest’ultima, già in atto e apprezzabile, che si concretizza nell’“emigrazione da studio” verso atenei collocati a nord, ritenuti migliori e capaci di garantire maggiori prospettive per il futuro. Una “tautologia dell’aristocrazia intellettuale” che destina dunque le risorse lì ove si dice che stiano i migliori.

Tutto questo, naturalmente, in un sistema in cui, malgrado ciò che dice il Corriere della Sera, vige ancora il valore legale del titolo di studio, i docenti presenti nelle varie Università della penisola sono selezionati dalle medesime commissioni ministeriali e i canali scientifici attraverso cui veicolare la ricerca sono anch’essi identici e ugualmente accessibili ai ricercatori del sud e del nord.

La distinzione tra “bene” e “male”, tra ricercatori “buoni” e “cattivi” è dunque per buona parte una distinzione artificiale. Una linea immaginaria tracciata da soggetti portatori di interessi e dotati soprattutto di parola.

In tale prospettiva, l’Università meridionale – ivi inclusa quella peloritana – si ritrova al centro di una pletora di discorsi non tanto perché ospiti distorsioni (parentopoli e scandali simili; oppure vicende come quelle che hanno colpito i Tomasello, il padre prima e il figlio poi) in maniera significativamente differente dalle omologhe istituzioni centro-settentrionali; ma perché esse costituiscono il bersaglio naturale di una narrazione e di un’affabulazione “tradizionali”. Una storia dai tratti manichei e, perciò, in ultima analisi confortante – rivolta a un pubblico di potenziali clienti dell’Università, interni per consuetudine culturale a questa narrazione – che vede il bene e il male collocarsi sempre dalla stessa parte. Una storia, insomma, che serve a orientare il cittadino disorientato; oltre che un paragrafo ulteriore di quel capitolo più generale che è la “Questione Meridionale”, declinata secondo i tempi e le esigenze della società della conoscenza.

Ma all’inizio di questa lunga nota, osservavo anche che questa è una storia di “riattivazioni”. Un interessante alternarsi di rumore e silenzio, luci e ombre proiettate sul caso Messina. La nozione di riattivazione è in questo caso collegata alla tempistica e a quel sistema di relazioni complesse e imperscrutabili che fa sì che un fustigatore come Stella possa essere continuamente aggiornato sulle vicende di questa città e questo ateneo così periferici per la vita del Paese. E che possa, per esempio, scrivere i suoi articoli al vetriolo un attimo dopo che una commissione ministeriale esprima il suo ennesimo parere positivo riguardo l’operato di un docente e un attimo prima che venga finalmente espletato il famoso concorso che avrebbe portato questi in cattedra.

Le riattivazioni, in questa banale prospettiva, sono lo specchio delle relazioni tra i piani “locali” e “centrali”. Non tanto o non soltanto l’indicatore di ciò che potremmo chiamare “buon giornalismo” e “professionalità” – lo “stare sul pezzo”, insomma – ma una “passione” e una convergenza.

Quella convergenza in primis di natura temporale che consente a un presumibilmente impegnato e autorevole decano del giornalismo italiano di trovare sempre l’attimo giusto per “mettere una buona parola” su Messina e la sua Università, che si tratti di Tomasello-padre o di suo figlio, con i quali li accomuna ormai anche una consuetudine di querele giocate in Tribunale.

Ma la cosa tra tutte più interessante, ancorché forse banale, è il formalismo “doppio-pesista” del discorso pubblico. Se le occupazioni di immobili o le attività irregolari di strada generano di solito nella stampa mainstream – ottimamente incarnata dal Corriere della Sera – l’auspicio di un sano “giro di vite” a rispetto delle norme e della legalità, oppure se si sprecano gli inviti a rispettare e non commentare le sentenze a danni di imputati illustri, colpisce che questo sano invito al silenzio non venga rispettato dinanzi all’unico atto formale che ritroviamo in questa vicenda: quello prodotto da una Commissione di esperti valutatori nominata dal Miur che conferma il giudizio sulla qualità scientifica di un candidato.

unimeMa questa notazione è naturalmente ingenua in una cornice insieme sociale e mediatica che fa sì che i processi più importanti non siano quelli celebrati dagli esperti nelle cornici istituzionalmente deputate – le commissioni scientifiche ministeriali oppure i tribunali – ma quelli giocati nello spazio della comunicazione pubblica. Lo stesso ove si creano e distruggono le reputazioni; salvo, naturalmente, le riabilitazioni di ordine penale, le quali intervengono però di solito dopo anni e cancellano solo raramente lo stigma appiccicatosi nel frattempo sui malcapitati.

Dopo decenni nel corso dei quali giornalisti e cittadini potevano al massimo auspicare al ruolo di allenatori virtuali della nazionale di calcio, si è insomma aperta quella in cui tutti possono farsi commissari scientifico-disciplinari e persino magistrati, in barba al principio kantiano per cui solo i “professori giudicano i professori”.

E se ciò apparirà a molti come una tendenza democratica – volta a lasciarsi alle spalle il classismo esclusivista implicito nel principio della competenza – essa dovrebbe invece essere più correttamente intesa come una preoccupante deriva populista giudiziaria, alimentata da importanti organi di informazione. La stessa deriva, per intenderci, che ha recentemente spinto Scattone a rinunciare al proprio posto di insegnante, dopo avere scontato la propria pena. O quella che qualche mesa fa ha visto un altro storico editorialista del Corriere della Sera scagliarsi contro Francesco Caruso, un ex leader del movimento No-Global, scagionato da qualsiasi accusa di violenza nei giorni del G8 genovese, ma ugualmente “colpevole” per il quotidiano nazionale di volere accedere all’insegnamento presso l’Università della Calabria.

Ecco, quello che c’è di grave nello scandalo di questi giorni non è che Dario Tomasello abbia plagiato o meno l’opera di un maestro che sino a qualche tempo prima declamava pubblicamente l’originalità di un lavoro per poi parlarne in termini di furto intellettuale, ma ciò che si nasconde sotto traccia: l’attacco all’indipendenza delle Università e al sistema pubblico e (semi-)capillare dell’istruzione a favore di poche “eccellenze” universitarie individuate a misura di gruppi di interesse dominanti, in competizione tra loro su piani sia nazionali che locali per la spartizione di risorse e la ristrutturazione del mercato della formazione.

Che il grande pubblico abbocchi a queste operazioni è purtroppo normale. Ma chi lavora all’Università e nel mercato culturale dovrebbe opporsi decisamente; e non tanto a difesa di chi individualmente cade in questo tritacarne o della propria Università, ma a difesa dell’indipendenza intellettuale e delle libertà politiche.

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