Nel cuore del GranCampoSanto, ricordando Leone Savoia

Certamente voleva realizzare qualcosa di diverso da una semplice necropoli per accogliere l’emergenza colera che dilaniava la Sicilia di quegli anni. Leone Savoja, l’architetto geniale e creativo, innovatore e sognatore che ha ideato il Gran Campo Santo di Messina, di sicuro aveva in testa un’idea originale e moderna. A quanto pare, il suo progetto era quello di dar vita ad uno splendido parco in centro città che racchiudesse al suo interno opere d’arte, cortili e vicoli incorniciati da palazzetti dall’architettura stilisticamente varia, ma armoniosa, e sculture evocative, giardini curati e viali alberati. A duecento anni dalla nascita, nel 2014, di quest’uomo a cui tanto deve Messina, in sordina e sotto tono è stato celebrato il suo genio con un convegno dal titolo “Gran Camposanto: museo d’arte-cultura nel parco della memoria”. Lui sta lì, con quel busto che lo rappresenta e che da metà percorso della sua creazione più illustre sembra controllare, con il suo occhio marmoreo, quanto avviene all’interno del cimitero. Lo osserva dal centro che affaccia sull’ingresso e ci chiediamo “chissà cosa penserebbe di quel che ne è stato?”.

Busto dedicato a Leone Savoja
Busto dedicato a Leone Savoja

Tutto rispetta teoricamente quei crismi che Savoja progettò ma, nel bicentenario della sua nascita, non possiamo non pensare che la celebrazione più consona sarebbe stata ridare a questo museo a cielo aperto la dignità che merita e che, da troppo tempo, è persa tra immondizia e fatiscenza, abbandono e incuria. E se tra gli addetti ai lavori c’è qualcuno che cerca di tenere alta la nobiltà della storia che questo campo santo racconta, la cittadinanza e i molti addetti alla manutenzione e alla sorveglianza, evidentemente, non sono ligi allo stesso rispetto e cura che esso merita.

Non solo dunque un sepolcreto nel quale osservare silenzio e depositare crisantemi ai piedi di una lapide, ma anche e forse soprattutto un giardino che odora di vita, di fiori freschi e vegetazione spontanea, adornato con sculture che raccontano esistenze troncate dalla morte ma di cui ancora ci parlano epitaffi emozionanti.

C’è la giovane scomparsa prematuramente a cui il marito dedica un pianto d’amore; il pargolo strappato all’affetto dei cari dopo appena qualche vagito; la coppia che ha voluto restare insieme, sepolti l’uno di fianco all’altra, dopo una vita trascorsa vicini, anche dopo che questa si è spenta. Soldati valorosi e nobili d’altri tempi, patrioti e artisti, modesti operai che han lavorato onestamente per guadagnarsi un posto di valore nella galleria monumentale e inconsolabili vedove, morte di dolore. In ogni metro quadro è celato un segreto, è dato un accenno di una storia, di un amore, di un dolore, di un’esperienza che ritratti di marmo o bronzo raccontano a chi li osserva, quanto e più di un quadro esposto in un qualunque museo al mondo.

E pensiamo se mai al Louvre o agli Uffizi troveremmo normale scorgere flaconi vuoti ai piedi della Gioconda o de La nascita di Venere, sacchetti dell’immondizia vicini alle figure scultoree di Amore e Psiche o al busto di Cosimo de’ Medici, erbacce e mozziconi di sigarette, pezzi di intonaco e bottigliette di plastica abbandonati negli angoli della Sala Raffaello o nella Hall Napoleon. No che non lo troveremmo normale. Più che deplorevole sembrerebbe assurdo! E ancor più assurdo è che nel nostro meraviglioso museo, invece, ci sembra così “normalmente vergognoso!”.

Una vergogna che si mette da parte quando si lascia il cimitero e tutto resta lì alle nostre spalle, compresa l’indignazione del momento. Abbandonati e imprigionati tra le grinfie dell’incuria: tanto le tombe degli illustri messinesi, quanto tutto il famedio e il cenobio, splendidi e non valorizzati. Per non parlare del cimitero degli inglesi: una figuraccia tutta nostrana.

La realtà è che a noi non interessa ricordare, non ci importa conoscere, non vogliamo una città migliore ne abbiamo interesse ad essere noi stessi cittadini degni. Se è vero che una rondine non fa primavera, è altresì evidente che non bastano una manciata di operatori di buona volontà a stravolgere la logica di pattumiera a cielo aperto, o di deposito di casse mortuarie abbandonate a se stesse, che per decenni ha contraddistinto il manage di questo straordinario luogo che, certamente, Leone Savoja, non avrebbe mai immaginato sarebbe finito così: trafugato da habitué che, con tanto di scala ben posizionata in via San Cosimo, si insinuano di notte e fanno razzia di quel che è commerciabile; deturpato dall’inciviltà dei visitatori e trascurato dall’ignavia della gente; umiliato da chi avrebbe come dovere unico il prendersene cura e non lo fa; mortificato da bilanci che per questa voce di spesa non prevedono mai fondi sufficienti; spoetizzato da quanti in quell’area vedono soltanto un deposito di salme e restano ciechi di fronte alla meraviglia che il parco offre.

E se lo scorso anno decidemmo di chiudere il pezzo sul Gran Campo Santo menzionando i Sepolcri foscoliani, quest’anno non saremo da meno ma con una consapevolezza in più radicata: a Messina è il silenzio a vincere, non l’armonia e il canto dei poeti! La speranza è che passeggiando tra quei viali ci siano occhi meno chiusi e più critici, tanto da comprendere a quali conseguenze la cecità di tutti porta. (MO14)

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