PIF, I SOGNI, PALERMO E LA FORZA DI TUTTI I GIORNI

Esordio cinematografico brillante per il Testimone con una storia ironica e dolce, che, attraverso gli occhi puliti e ingenui di un bambino racconta al pubblico gli eventi salienti della storia di una Palermo assediata dalla mafia dagli anni 70 ai giorni nostri. Ma lo fa in modo atipico, mantenendo la leggerezza e il candore di un ragazzino innamorato che cresce senza mai invecchiare o uniformarsi alla sua età e alla realtà che vive ogni giorno. Perché è di giorni che il film è composto. Non date storiche vissute e presentate in modo esasperato, ma attività quotidiane di una città che non sa e non vuole capire quanto è distrutta e anche per questo non può fare a meno di continuare a vivere normalmente, cullandosi più o meno colpevolmente nell’illusione che la mafia non esista, non sia pericolosa o comunque sia facilmente evitabile, semplicemente un cane che dorme, da non stuzzicare.

E’ molto più “saggio” e rassicurante rifugiarsi in dicerie, giudizi morali campati in aria sulle vittime e affidarsi al tepore della propria casa, di un divano catapultato nella realtà televisiva, così lontana da consentire di chiudere gli occhi su quello che succede nel bar sotto casa o due isolati più in là. Perché chi muore se l’è cercata e chi si fa i fatti suoi può campare serenamente.

Eppure qui si manifesta il vero punto di forza del film, concepito, diretto e interpretato da Pierfrancesco Diliberto, autore televisivo innovativo nella sua ironica e inusuale semplicità. Perché anche gli eroi, esattamente come la famiglia del piccolo protagonista, sublime nel riproporre la nota mimica facciale di Pif, non vengono dipinti nel loro agire contro la mafia. Le loro parole non riguardano la lotta alla criminalità, come è decisamente più usuale nei ritratti offerti di questi personaggi dal cinema e dalla televisione. E’ un sapiente tentativo di sottolinearne l’umanità senza cadere nel tranello della beatificazione, che rischia di allontanare la persona dallo spettatore, per quanto il personaggio rimanga un ideale ben radicato. E così Chinnici e Giuliano, per esempio, sono dei vicini di casa che chiacchierano con un bambino, fanno colazione al bar e non affascinano nemmeno il piccolo Arturo, che invece si lascia affascinare dalle parole di Giulio Andreotti, che dalla televisione sembra parlargli direttamente, conquistandolo e dando origine ad un’ossessione dai contorni tragicomici. Allo stesso modo gli antieroi possono essere personaggi totalmente positivi, con la loro ingenuità come unica macchia.

Insomma, Pif, arricchito dell’esperienza del Testimone, programma da lui ideato e realizzato per Mtv dallo stile inconfondibile che emerge prepotentemente alla fine del film, racconta una storia di mafia e di vita, citando senza alcun timore nomi e cognomi di assassini, mandanti e criminali, le cui vite sono ricostruite con pungente ironia e contorni grotteschi. Questo non confonde la netta classificazione tra giusto e sbagliato, che Arturo sviluppa negli anni, stimolato dall’amico giornalista e da una coscienza civile in crescita, ma permette di elaborare una versione della verità non ammantata in dogmi o caratterizzazioni quasi patetiche e di divertirsi sinceramente guardando Totò Riina, interpretato in modo eccezionale dall’attore messinese Antonio Alveario, litigare con il telecomando del condizionatore appena montato senza dimenticare che i rapporti del noto boss con un dispositivo simile causeranno presto ben altro che una temperatura indesiderata nel suo soggiorno. E come lui altri personaggi tragicomici e controversi suscitano un misto di ilarità e disprezzo, compreso il padre spirituale della famiglia di Arturo, a cui presta il suo volto Ninni Bruschetta, altro brillante interprete messinese. Merito di una sceneggiatura eccezionale, scritta dal regista e protagonista con Marco Martani e Michele Astori, e di un geniale gusto estetico che attraverso una risata per nulla ipocrita, arriva a un finale commovente ma non vuoto o retorico quanto speranzoso in modo onesto, propositivo e misurato in una conclusione riflessiva, non troppo didascalica che lo rende perfetto per raccontare alle nuove generazioni e ricordare alle vecchie cos’è stato veramente vivere una Palermo fin troppo abituata alle macchie di sangue, ai fini di garantire alle generazioni future, a partire dai propri figli, che questo tragico passato serva a preservare il futuro. Ogni giorno, con ogni azione, in ogni pensiero.

(Martina Morabito)

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