La vita e lo sguardo femminile nel carcere: una riflessione sul libro “Recluse”

È lecito considerare il carcere un luogo dove le differenze di genere possono giocare un ruolo attivo per la riabilitazione del recluso? Esiste, in maniera tangibile ed effettiva, un modo specificamente femminile di vivere la detenzione carceraria? Le disposizioni emotive ed etiche riconducibili più immediatamente alle donne possono costituire degli elementi a partire dai quali tracciare delle linee di fuga dal peso stigmatizzante che la prigione getta terribilmente sulle spalle di coloro che la subiscono?

Questi sono solo alcuni degli interrogativi sollevati dall’incontro che oggi si è tenuto nell’Aula Magna del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Ateneo della nostra città, nel quale si è discusso del testo Recluse (edito da Ediesse, 2014), curato da Susanna Ronconi e Grazia Ruffa, due ricercatrici in ambito penitenziario, le quali hanno raccolto in un volume le testimonianze di donne detenute in alcune carceri toscane (Sollicciano, Empoli e Pisa), ma anche di operatici carcerarie e di agenti di custodia, al fine non solo di ricostruire, seppur sommariamente e parzialmente, il contesto reclusivo delle donne, ma anche di offrire la possibilità di pensare la soggettività femminile come l’incrocio di varie istanze razionali, morali e sentimentali dalle quali poter ripensare e riconfigurare i modelli dell’amministrazione penale.

Il dibattito, al quale non ha potuto prendere parte la dott.ssa Ruffa, assente per ragioni personali, è stato aperto dal prof. Bolognari, direttore del DICAM, il quale ha sottolineato l’importanza formativa dell’incontro, tutto teso alla sensibilizzazione al tema penitenziario, tante volte trattato dalla collettività in modo superficiale o – peggio – moralistico.

A rispondere la prof.ssa Gensabella, docente di bioetica all’Università di Messina, la quale, desiderando precisare il “carattere non celebrativo dell’evento” (svoltosi nella Giornata internazionale della donna), ha posto l’accento non solo sulle potenzialità strategiche e operative della presa in carico della prospettiva femminile sulla penalità, ma anche sulla necessità di riformulare le domande riguardanti la percezione della vita e della sofferenza all’interno dell’orizzonte della vita delle donne.

La parola è stata poi offerta alla dott.ssa Benelli, ricercatrice di pedagogia interculturale, operatrice carceraria e studiosa dei fenomeni concentrazionari, la quale ha precisato che il libro della Ronconi e della Ruffa “persegua una finalità pratica”, la comprensione dei metodi tramite i quali diminuire il carico afflittivo della detenzione in generale e di quella riservata alle donne in particolare, alle quali l’esclusione dalla società è resa ulteriormente dolorosa dall’impossibilità di svolgere regolarmente il proprio ruolo in famiglia.

Profonda è stata anche l’osservazione della prof.ssa Furnari, che si è definita fiduciosa nelle capacità emancipative di “un’etica femminile della cura e dei bisogni” e nelle potenzialità delle soggettività attive che il castigo detentivo cerca sempre di soffocare.

Molto preziosa è stata inoltre la testimonianza della propria esperienza professionale da parte della dott.ssa Taiani, Direttrice aggiunta della Casa Circondariale di Messina, la quale, facendo riferimento a dati concreti, ha disegnato brevemente un’immagine molto disincantata del mondo penitenziario femminile: “Ė sbagliato sostenere non solo che esista un tipo unico di detenuto (la vittima dell’ingiustizia sociale, il criminale irrecuperabile, l’emarginato abbandonato, ecc.), ma anche che tutti i reclusi siano uguali, specie se questi sono donne”. La direttrice ha ricordato quanto sia decisiva la forza di autodeterminazione del reo per la sua riabilitazione etica e sociale, la quale è certamente contrastata dal troppo rigido sistema di gestione delle pene, “nonostante questo – ci tiene a precisare il funzionario – sia diventato negli ultimi anni più sensibile alle esigenze delle  detenute”. Malgrado una certa (in parte comprensibile) severità aleggiante sul suo discorso, la direttrice ha concluso con parole luminose: “Ricordate che il carcere, checché se ne dica, è un luogo in cui si coltiva la speranza”.

Trovare nell’afflizione legittima del dolore il punto in cui la speranza non piombi terribilmente nel suo opposto, è appunto il prossimo e più urgente compito che la nostra comunità deve affrontare.  (Antonio Fede)

 

 

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