Omayma: condannato all’ergastolo il marito assassino

In carcere a vita, senza attenuanti. Si chiude con una sentenza di ergastolo una delle storie più nere di questa città: il femminicidio di Omayma, la mediatrice culturale uccisa a bastonate dal marito Fouzi Dridi.

A stabilirlo la Corte d’Assise di Messina (presidente Trovato) che ha anche condannato il tunisino reo confesso a pagare 10 mila euro per ogni familiare costituito parte civile, e 2500 euro al Centro Donne Anti Violenza, rappresentato dall’avvocato Maria Giaquinta.

 

dridi faouziIl processo ha ripercorso la terribie vicenda, ricostruendo la violenta uccisione avvenuta davanti agli sguardi atterriti delle quattro figlie, tutte minorenni.

Una crudeltà inaudita, che inutilmente il difensore di Dridi ha tentato di ridimensionare, chiedendo che il giudice escludesse i futili motivi e adducendo come attenuante un fattore “culturale” che riguarderebbe il rulo subalterno della donna per i musulmani.

Di certo una difesa che non è bastata a modificare il giudiio severo della corte, dinani alla quale Fauzi Dridi ha chiesto perdono ai suoi familiari.

In questi due anni l’uomo non ha mai lasciato il carcere. Era stato lui stesso a consegnarsi alla polizia, dopo aver lasciato esanime Omayma, che quel giorno era rientrata dopo aver lavorato per la Questura nell’accoglienza degli immigrati.

Le sue figlie oggi sono affidate a famiglie e strutture diverse, ma stanno lentamente riprendendosi quella vita che il padre ha distrutto, e  dallo scorso mese hanno ricominciato a incontrarsi.

Cresceranno in Italia, dove all’indomani del femminicidio di Omayma in molti si sono assunti pubblicmente a responsabilità di pensare al loro futuro, così come lo avrebbe desiderato la loro madre.

Questo processo ha segnato anche il riconoscimento sociale del Cedav, il centro donne antiviolenza guidato dall’avvocato Carmen Currò, che ha sottolineato come “la costituzione del Centro Donne Antiviolenza di Messina come parte civile ha costituito una novità nell’ambito giudiziario messinese.

Tale ammissione ha una fortissima valenza sociale: riconosce che il femminicidio, attuatosi in un contesto di violenza domestica continuata non rappresenta solo la lesione dei diritti di una donna, e quindi un fatto privato, ma costituisce una profonda ferita per tutta la società che deve considerarsi responsabile per la non eliminazione di quella cultura e di quegli stereotipi che ancora oggi minano l’autodeterminazione.

La libertà, la vita delle donne e il sereno sviluppo dei bambini che assistono alle violenze e ne subiscono le conseguenze in termini psicologici.

L’importante sentenza della Corte d’Assise di Messina costituirà certamente un precedente per altri giudici che in Italia, in questo periodo sono chiamati a decidere su altri casi – centinaia – di femminicidii, e che purtroppo nonostante le innumerevoli campagne di sensibilizzazione e l’impegno profuso dai centri donna antiviolenza non si riescono ad arginare. Occorre oggi più che mai un massiccio intervento della politica perché il Piano nazionale Antiviolenza venga seriamente attuato fornendo le risorse necessarie per poter aiutare concretamente le donne ad uscire vive dalla spirale della violenza”.

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